Valter Binaghi, dopo L’ultimo gioco e una serie di libri di genere musicale per Arcana Editrice (Pink Floyd, Lou reed, Punk), giunge con Robinia Blues al secondo romanzo. Negli anni Settanta si è occupato di controcultura e movimenti giovanili come redattore della rivista underground Re Nudo. Sono proprio i 70’s il background di questo romanzo, riscoperti da quella che potrebbe essere definita come una "indagine nella memoria". No, non è il solito libro di un nostalgico post-Sessantotto, o almeno, non è solo questo. Infatti Robinia Blues corre su due binari: quello della velata (e mai piagnucolosa) nostalgia e quello dell’autocritica e dell’autoironia. Il protagonista è l’autore di una serie di romanzi adolescenziali di successo che si trasferisce, seguito da tutta la sua famiglia, da Milano al piccolo paese di provincia dove ha trascorso la sua infanzia. L’intento è di approfittare della tranquillità del paesino per buttare giù la nuova avventura di Argo, l’adolescente squinternato dei suoi romanzi usa e getta, e per disintossicarsi dal caos metropolitano. Non riuscirà in niente di tutto ciò, dato che la sua vena creativa sembra essersi esaurita e che a rompere la quiete c’è la scoperta del cadavere di Dino, un suo amico d’infanzia, proprio nel tempio nella loro fanciullezza, il bosco delle robinie. Da qui partono le indagini pseudo-poliziesche del protagonista, che altro non sono se non uno scavare, spesso doloroso e malinconico, nella memoria. Robinia Blues è un libro sospeso tra pungente ironia ("Storie di quando il mondo era diviso in due, ognuno col suo dio, prima che le anime se le prendesse il superenalotto") e momenti in cui sembra sfiorare la poesia ("Scordare la tua primavera e piantare nuovi alberi, sospendere a quei verdi rami la fatica di trovare un senso all’esistenza: è la forma di salvezza concessa ai più"). Da leggere: è ben strutturato e gode di un ottimo dosaggio della suspense e dei colpi scena, anche se c’è qualche piccolo ma pericoloso calo di tensione, specialmente nel capitolo conclusivo, che chiude un po’ forzatamente il romanzo ribadendo concetti precedentemente espressi. E' un romanzo sulla perdita dell’innocenza e sul crollo degli ideali, argomenti che messi assieme potrebbero generare il solito polpettone mieloso sull’autocommiserazione generazionale; l’autore ha il grande merito di riuscire ad evitare questo marasma sentimentale e lacrimogeno. Il nodo cruciale del libro sembra essere in queste righe: "[...] le robinie non erano di sicuro il paradiso, ma è l’ultimo posto dove mi sono sentito libero. Dopo sono diventato terra di conquista: una specie di colonia per tutti i missionari dell’ultimo quarto di secolo. Catanga in grigio-verde, buddisti rapati, sciamani psichedelici e critici letterari, ognuno ha piantato la sua brava croce nel mio cranio che sembra un cimitero, e adesso sono qui che giro in tondo senza patria e senza idee."