Trovai Snoopy non lontano da casa, in riva al fiume. Ricordo che la giornata era stupenda, la tipica esplosione di odori dell’estate che si colora, dell’erba dei prati che sa ancora di neve. Era una giornata da far sorridere, ma appena vidi Snoopy scoppiai a piangere. Era legato a un albero con una corda tesa, la testa a mezz’aria, il corpo a terra senza vita. Aveva il dorso tumefatto e un buco di fucile nella pancia. Accanto al corpo c’era un ramo robusto, il giallo della resina macchiato di rosso. E poi un sasso, le punte insanguinate.

Non ebbi il coraggio di toccarlo e nemmeno di avvicinarmi. Restai lì immobile a un paio di metri, a frignare e sperare che d’improvviso si mettesse a scodinzolare. Fu la prima volta che provai l’angoscia della morta violenta. Avevo dodici anni e mentre le lacrime mi bagnavano guance e collo, contai le volte che lo avevo accarezzato.

A uccidere Snoopy fu il colpo di fucile, a torturarlo il ramo e il sasso appuntito. Fu il giorno più triste della mia adolescenza.

Tornai a casa di corsa, singhiozzando, e trovai mio padre in laboratorio. Era falegname e ricordo che stava lavorando a una cuccia per il cane dei nostri vicini. Spiegai a mio padre come avevo trovato Snoopy e lui mi accompagnò al fiume tenendomi per mano. Aveva il volto tirato e nel tragitto non disse una parola. Io continuavo a piangere ma la sua presenza, il rumore denso del respiro, la stretta ruvida della mano mi diedero il coraggio di reagire. Fu nel tragitto verso il fiume che decisi di scoprire l’assassino di Snoopy.

Appena vide Snoopy mio padre bestemmiò e anche se mi aveva sempre insegnato a non dire parolacce, in quell’occasione approvai. Sono sicuro che nel vedere com’era stato ridotto il suo corpo anche a un prete sarebbe sfuggita una bestemmia.

I carabinieri arrivarono al fiume subito dopo, ma non sembrarono molto interessati all’accaduto. Il più giovane non scese nemmeno dall’auto: disse che in fondo si trattava solo di un cane. L’altro, senza indugi, ordinò a mio padre di seppellire il corpo da qualche parte, oppure di portarlo alla discarica. L’importante era toglierlo dalla vista dei passanti. Nessuno dei due chiese il nome del cane.

Più tardi seppellimmo Snoopy in giardino. Mio padre disse che non l’avremmo mai portato in discarica, per nessuna ragione al mondo. Con fermezza disse anche che gli animali di famiglia si seppelliscono nella terra dove sono cresciuti. Era un uomo di valori e in quel momento cercava di darmi conforto.

In laboratorio lo aiutai a costruire una cassa da morto con assi di compensato. Dentro ci adagiammo il corpo di Snoopy, dopo averlo pulito dal sangue e avvolto nella sua coperta preferita. Sul fronte della cassa scrissi Qui riposa Snoopy, un Beagle testardo e giocherellone. Aggiunsi la data di nascita e quella di morte, poi scavammo una buca.

Al fiume cercai sul corpo di Snoopy qualche indizio. Non piangevo più. Dentro sentivo solo l’elettricità che nasceva dalla voglia di scoprire l’assassino. Avevo una missione da compiere, così dimenticai presto che a morire era stato il mio cane: credo fosse il famoso distacco emotivo di cui ha bisogno un detective per indagare al meglio.

Tra i denti di Snoopy trovai un lembo di tessuto grande come una caramella. Era azzurro e una riga nera lo attraversava nel mezzo. Sembrava il pezzo di una camicia scozzese, dello stesso tipo che usava mio padre al lavoro. Sorrisi fiero pensando che Snoopy si era difeso affondando i denti nel braccio dell’assassino. Poi lo slegai dall’albero e analizzai la corda che lo teneva legato. A un’estremità aveva un bozzo simile a quello che si fa alle stringhe delle scarpe per non farle uscire dai fori, nell’altro lato la corda era sfilacciata, come fosse stata tagliata con una forbice troppo piccola. Prima che mio padre tornasse con la jeep per caricare il cadavere, controllai il terreno attorno all’albero, muovendomi come fossi in pantofole, fosse notte e scendessi di nascosto in salotto a cercare cioccolatini. Vicino a un groviglio di ortiche e muschio trovai un pacchetto accartocciato di MS. Non era né bagnato dalla brina né scolorito dal sole. Era stato buttato di recente, pensai, e con tutto il cuore sperai che appartenesse all’assassino. Ero eccitato: avevo tre indizi, anche se la corda era inutile per le indagini.

Dopo aver seppellito Snoopy mi barricai in camera e scrissi una lista dei possibili colpevoli. Pensai a chi potesse vestire camice scozzesi, oltre mio padre, a chi fumasse MS e a chi potesse avere una corda. Scrissi due nomi: erano di un pastore e di un contadino.