Dal regista di The Grudge e Ju-on, Shimizu Takashi, Marebito è un film horror sui generis, che esplora soprattutto i limiti e le contraddizioni della scopofilia, da cui il mondo contemporaneo tutto, non solo in ambito filmico, è pervaso.

Masuoka (Shinya Tzukamoto), cameraman ossessionato dalle immagini, gira per le strade di Tokyo alla ricerca del terrore assoluto, quell’oscura verità insopportabile ma necessaria nascosta dietro la retina della realtà. Sovrapponendo la lente della telecamera ai propri occhi, come mezzo per andare oltre il visibile, Masuoka crede di riconoscere il terrore nello sguardo violato di Kuroku, (Kazuhiro Nakahara), un uomo anziano suicidatosi nella metropolitana di Tokyo andando a toccare proprio il cuore della visione - bucandosi un occhio con un coltello. Lui stesso autore della ripresa del suicidio in diretta, Masuoka si reca nuovamente sul luogo dell’atto insano dell’uomo per scoprire il possibile riverbero del terrore che deve aver invaso il campo visivo dell’uomo, rendendo la banalità del reale insopportabile di fronte alla nudità del dolore. Addentrandosi nei sotterranei della metropolitana, Masuoka scopre un mondo del tutto sconosciuto, al di là del confine con la terra: il sottosuolo di Tokyo, centro nevralgico del superamento della realtà, e forse anche della fantasia. Qui, Masuoka rincontra l’uomo suicida, che lo introduce alla dimensione di uno strano universo di creature di finzione fatte carne - i dero, robot deteriorati inventati dallo scrittore di fantascienza Shader nei suoi racconti - ma anche di scenari à la Jodorowsky, imbastiti su conversazioni filosofico-paranormali che vedono in Kuroku l’interprete saggio di una visione ulteriore del mondo. Il piano sfalsato fra realtà e finzione, che sembra interrompersi con il brusco abbandono della scena da parte di Kuroku, giunge ad ampliarsi ulteriormente quando Masuoka, procedendo nella sua esplorazione del sottosuolo, approda alle Montagne della Follia, luogo inventato da Lovecraft, dove si nasconde una creatura dalle sembianze di una donna umana nuda, che è però legata con delle catene spesse, piena di lividi e incapace di parlare. Affascinato e anche un po’ perplesso dalla nuova scoperta, Masuoka decide di portarsi a casa la giovane creatura, chiamandola F (Tomomi Miyashita).

Credendo di porre così inizio a una sorta di esperimento in stile Kaspar Hauser, attraverso il quale “rieducare” F alla vita e alle abitudini umane, Masuoka finisce in realtà per ritrovarsi in un universo molto più inatteso e incomprensibile di quanto non pensasse all’inizio. Ciò che ha di fronte, infatti, non è una semplice creatura venuta da un altro mondo ma un vero e proprio “marebito”, ossia un essere primordiale in grado di rivelare  antiche verità ormai sepolte sul sogno e le diverse sfaccettature del sé. Ma soprattutto, F è una sorta di proiezione delle pulsioni più devianti e potenzialmente sado-masochiste di Masuoka, che finisce per intraprendere inconsapevolmente quello stesso percorso di terrore a cui sembrava anelare così disperatamente all’inizio, un terrore che, lungi dall’essere rintanato fra le pieghe più marce della realtà circostante, va stanato dentro di sé, nelle paure e nelle violenze più profonde che il nostro io cela allo sguardo fallace che utilizziamo per orientarci nel mondo, illudendoci di vederlo per ciò che è. Tutto alla fine sembra sfuggire alla visione più autentica, sembra dirci il regista, e lo sguardo finale di Masuoka, forse finalmente vicino alla perdita assoluta dell’io come fu per Kuroku, demolisce ogni certezza possibile e ogni legame fra la latenza della follia e il materializzarsi della fantasia.

Onirico, struggente, sanguinario, delirante e frammentario, a volte pretenzioso, soprattutto nei discorsi forse troppo accademici di Kuroku, o troppo enfatico, nella voce fuori campo di Masuoka che assume un tono vagamente pedante, Marebito è un horror insolito e che riesce a mescolare bene le carte in tavola, rovesciando i diversi piani di realtà e immaginazione con abilità e guizzi d’intuito narrativo e filmico pur con qualche ingenuità di troppo, come nella riapparizione dei dero, un po’ posticci come sembianti di un altrove paranoide. Altamente consigliato a chi voglia addentrarsi in percorsi poco battuti dall’horror più tradizionale e banale.

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