…E’ come una barca che si è mossa
dalla costa di notte ed è scomparsa.
E’ come una chitarra lasciata sulla tavola
da una donna che se n’è dimenticata.
(Wallace Stevens)
1
Afferro il bagaglio dal tapis roulant con la stanchezza del viaggiatore pentito, poi, palpando una tasca del giubbotto di jeans, avverto il peso piuma di due o tre cartoline che mi sono dimenticata di spedire. Cammino in questo spazio asettico – un misto di plastica e acciaio – affollato di turisti e di personale. La sala d’attesa è una distesa di sedie rigide e rosse; al centro, sotto il tabellone luminoso, troneggia l’ultimo modello di una macchina superaccessoriata. Sfioro gente in fila alla dogana del metal detector e altra che controlla sui monitor gli arrivi e le partenze. Dagli altoparlanti, la voce della radioassistenza interrompe un classico di Frank Sinatra per segnalare il ritardo di un volo.
Ho bisogno di un caffè. Entro in un ascensore romboidale di plexiglas e salgo al secondo piano, dove c’è l’area di ristorazione. Dalla grande vetrata esplode un cielo blu da tardo pomeriggio; intravedo un bus navetta che percorre la pista e la sagoma grigia di un aereo pronto per il decollo. Sono partita da qui otto giorni fa lasciandomi alle spalle una breve storia con Marcel, ed è stato proprio nel bar dell’aeroporto che ci siamo salutati: io andavo in vacanza in Tunisia e lui tornava a Parigi a ultimare il suo quinto romanzo noir.
Marcel, quarantasei anni, amico di un amico: il magnetismo intellettuale, la classe dei suoi gesti, che, col passare delle ore e dei bicchieri, gli davano quell’aria trasognata di chi beve troppo. Due settimane con un figlio del surrealismo dalle sopracciglia marcate, il ventre gonfio e la faccia sgualcita, che accendeva una sigaretta col mozzicone di quella precedente; l’ennesimo a cui ho guardato la fede luccicare nel buio di una camera d’albergo, sentendolo dire: “Pour aimer une femme il faut épouser une autre”.
Che bisogno c’era, Marcel, di tirare fuori l’amore? Avrei fatto a meno di quella galanteria, perché tra noi, diciamolo, si era capito fin da subito che non sarebbe durata. Abbiamo quasi la stessa età, ti ho detto. L’amore ci ha occupati per anni peggio di un liceo sessantottino. Io vivo di libere alleanze, non ho legami fissi e… “Libre alliances?”
“Oui, tu comprend?”
Avevi le lenzuola attorcigliate alle gambe e hai fatto qualcosa che somigliava a un sorriso. Sono tornata verso di te, già mezzo vestita, con un piede in bilico su un piattino pieno di cenere e mozziconi; credevi che ti centrassi la bocca con un bacio e invece ho mirato alla fronte: era il mio modo di azionare la freccia e imboccare la classica scorciatoia. Ti sei stropicciato gli occhi con i pugni; sulla maglietta azzurra c’erano aloni scuri all’altezza delle ascelle: l’odore forte di un vandalo francese che scrive storie di suspance perché la paura – hai detto – è un sentimento che Dio, se c’è, non ha mai provato.
Sul comodino c’era il block notes dove avevi trascritto appunti durante le nostre passeggiate. “Un tempo questa città era attraversata da canali. Insomma, era una specie di Venezia, col porto, le barche…”. Hai drizzato le orecchie quando ho aggiunto che era piena di pozzi e che un tempo gli assassini nascondevano lì le loro vittime…
Ordino un secondo caffè.
Chissà cosa ti è rimasto, Marcel, dei trentacinque chilometri di portici, della fontana del Nettuno, della Madonna con Bambino di Nicolò dell’Arca, della chiesa di San Francesco in stile gotico, della Torre degli Asinelli, della Garisenda. Io, al tuo fianco, a dirti che da qui erano passati Leopardi, Byron, Rossini.
“Oh, Leopardì, ce lui de la haie, ce lui de l’infini?”
“Sì, l’infinito…”
Grazie per avere paragonato i miei cinque chili di troppo alle carnalità rubensiane, per avermi detto che la bellezza di una donna aumenta con l’età e che la mia, così poco ortodossa, così singolare, ti aveva colpito perché sei uno scrittore. “Les jeux sont fait,” avrei voluto dirti, “mi hai già portata a letto. Che bisogno hai di dire queste stronzate?”. Grazie per avermi parlato della Parigi degli anni ’50, delle cantine del music hall, del jazz, degli chansonniers, dei nottambuli professionisti della rive gauche, martiri della notte da cui hai ereditato le borse sotto gli occhi e canzoni rivoluzionarie. Grazie per avere citato Un poison violent, c’est ça l’amour di Serge Gainsbourg. E grazie, soprattutto, per avermi dato le ore che servono per un bel ricordo: né una di più né una di meno.Qui, in questo stesso bar, ti ho guardato le mani: una Hyde e una Jeckill. Tutti abbiamo mani così, Marcel, anche se non scriviamo dei romanzi gialli.
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