Fine del Seicento. Delle urla risuonano nel castello di Csejthe, nel nordovest d’Ungheria, non molto lontano dal regno di Vlad l’impalatore. Le urla sono quelle della bellissima contessa Erzsébet Báthory, nata nel 1560 in una delle più antiche famiglie d’Ungheria, andata in moglie, a quindici anni, al conte Nadasdy, condottiero definito il “black hero” d’Ungheria. La servitù, impaurita, osserva la contessa urlare e torturare una sua cameriera, rea d’averla contrariata. Tutti sono abituati alle stranezze e alle sfuriate della contessa: fin da piccola Erzsébet è stata iniziata alla tortura, all’adorazione del diavolo e alla perversione sessuale: tra le sue stravaganze preferite c’è quella di far soffrire le ragazze strappando loro dal corpo pezzi di carne con apposite tenaglie o con i denti, o quella di attorniarsi da un numero spropositato di gatti, ai quali la contessa attribuisce un potere magico. Ma quel litigio sfocerà in un episodio fondamentale per la futura vita del castello. Un colpo sferrato con più violenza dalla contessa, provoca una ferita alla cameriera, fa schizzare il sangue plebeo sulla pelle delicata di Erzsébet. Lei corre a lavarsi, ma qualcosa succede: la sua pelle risulta più lucida, più luminosa, e la sua mente si perde del tutto.
Con la morte del marito, avvenuta nel 1604, la contessa lascia libero sfogo alle sue perversioni. Sceglie alcuni fidati servitori, e, insieme ai suoi gatti, si chiude nel castello, vivendo, da quel giorno, come una reclusa. Nel frattempo, nel villaggio ai piedi della fortezza, avvengono delle strane sparizioni. Giovani ragazze svaniscono nel nulla. Strane voci cominciano a circolare riguardo al castello e a bagni nel sangue della contessa, ma nessuno interviene. Erzsébet è potente, ha conoscenze elevate e protezioni influenti. Intanto vengono ritrovati sempre più cadaveri attorno al castello, e, cosa grave, cominciano a sparire giovani della piccola nobiltà. Il problema diventa così pressante che nel 1610, il re Mattia d’Ungheria, invia il conte György Thurzò a investigare sui fatti. Questo, accompagnato dal cugino della contessa Báthory, dal primo ministro d’Ungheria e da una scorta armata, entra nel castello di Csejthe. Quello che scoprono li lascia sbalorditi. Ovunque sono incatenate delle fanciulle, molte delle quali sono già morte, altre agonizzanti, con dei fori sul collo, sul torace e sullo stomaco, da dove viene drenato il sangue. Altre sono tenute in vita, nutrite con la loro stessa carne grigliata, per renderle pronte al loro macabro compito. Il drappello continua ad attraversare le stanze del maniero, nelle quali trovano i più svariati strumenti di tortura: catene, forbici, manette, perfino una vergine di ferro, terribile strumento di tortura a forma di sarcofago, dotato di punte metalliche, nel quale le vittime venivano richiuse e lasciate morire dissanguate. L’odore è insopportabile. La vista tremenda è ampliata dalle scorrerie dei gatti nel sangue. Quando trovano Erzsébet, impegnata con i suoi servitori in una sanguinaria orgia, questa si difende affermando: “Abbiamo il diritto di fare quello che vogliamo ai nostri subalterni. Noi siamo di sangue reale!”
Aveva cinquant’anni, Erzsébet Báthory, la contessa sanguinaria, ma ne dimostrava molti di meno.
Fu murata viva in una stanza del castello, nutrita attraverso delle fessure lasciate aperte nella parete. Priva dei suoi bagni nel sangue, morì dopo tre anni, il 21 agosto 1614. E’ stato stimato che un numero da trecento a seicentocinquanta donne sono state uccise dalla contessa per il suo gusto personale e per i suoi bagni di sangue.
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