Un ispettore di polizia da pochi mesi trasferito a Cocullo, un piccolo paesino della provincia dell’Aquila, si trova a dover fronteggiare delle morti inesplicabili. Cadaveri coperti di pesci, con decine e decine di morsi di vipere, corpi che scompaiono dall’obitorio e ricordi che riaffiorano improvvisi, misteriose ragazzine che fuggono e riemergono nel cuore della notte, e un passato che prende il sopravvento su un presente e su una realtà che lentamente si vanno disfacendo. Sullo sfondo di tutto i serpenti, rapidi e sinuosi, che tutto avvolgono fra le loro spire. I serpenti della festa di San Domenico Abate, patrono dei serpari… i serpenti dei giochi fra bambini… i serpenti di un inconfessabile peccato originario…

Il libro di Paolo Condemi De Felice ha una struttura complessa e articolata, con un continuo sovrapporsi di piani temporali e di squarci onirici. La narrazione è altalenante e sincopata, nella prima parte si ha difficoltà a seguire l’autore e il personaggio nel dipanarsi della vicenda, ma con il proseguio del libro si comprende la cifra stilista che muove il tutto, a poco a poco si acquisisce il ritmo della scrittura e si costruisce un rapporto empatico con il personaggio principale che travolto e travolgente si muove a volte inconsapevole a volte dolorosamente conscio all’interno di una realtà avversa.

La storia, la trama e l’intreccio coinvolgono appieno e il precipitare inesorabile del finale avvince il lettore, ma una scrittura più votata alla scorrevolezza del linguaggio e del periodare avrebbe aiutato una maggiore creazione dell’atmosfera e del patos narrativo, che a volte sembrano essere prevaricati da un desiderio di introspezione che duro e inesorabile si rispecchia nel tessuto narrativo. Ma Lucus Angitiae si fa comunque apprezzare per questo suo scandagliare psicanalitico attento e profondo, che rende il libro interessante nel suo genere e meritevole di una lettura attenta e non superficiale.