Non che questo terzo episodio della saga dei mutanti Marvel sia migliore degli altri; probabilmente non lo è (non c’è una scena paragonabile seppur lontanamente all’incipit del secondo…). Sta però il fatto che pare di poter dire che è la saga nell’insieme a convincere. Vi riesce perché pésca, ma senza saccheggiare in modo ignominioso, in temi che funzionano al di là delle mode, temi che impattano forte su tutti coloro sensibili perlomeno a tre elementi che nessun effetto speciale riesce a ricacciare in secondo piano.

Il primo è la dimensione legata alla diversità, con tutto ciò che ne segue: emarginazione prima tentativo di cancellazione o comunque di normalizzazione poi (quest’ultimo di fatto è il tema portante di quest’episodio, poiché l’intera storia ruota attorno a un farmaco capace di rendere qualsiasi mutante non più tale…).

Il secondo, magari più sfumato ma lungi dall’aver cessato di dire quello che ha ancora da dire, è la convivenza nello stesso essere di un potere che pur facendo dello stesso un soggetto ben al di là di quanto umanamente possibile, lo rende al contempo quanto mai fragile, caratteristica, questa sì, profondamente umana, e che si traduce nell’essere dominati dal proprio potere piuttosto che dal riuscire a dominarlo.

Il terzo, altrettanto importante, è la perdita dello status di mutante, quindi dei poteri, e per estensione dell’onnipotenza, evento che la sceneggiatura carica di una mestizia e di un dolore tutt’altro che trascurabili.

 

Rispetto al suo possibile rivale, Mission Impossibile:3, questo X-Men: Conflitto finale (diretto da Brett Ratner, subentrato all’ultimo momento a Brian Singer) un anima ce l’ha, e ogni interazione tra mutanti e umani e tra i mutanti stessi, sta a ricordarcelo.

Lo si vede con una partecipazione a tratti inspiegabile, quella che normalmente si riserva ad altri film.