Bubble, dell’ultra-poliedrico Steven Soderbergh, racconta una storia di ordinario squallore lasciando che sia quest’ultimo a menare le danze, prima attraverso gli immutabili rituali della catena di montaggio, che sforna organi di bambola (teste, braccia, gambe, capelli, sopracciglia…) ma senza mostrare mai il prodotto finito (scelta di regia, ovvio…), poi attraverso la descrizione del tempo libero, ancora più squallido e vuoto di quanto non sia quello trascorso in fabbrica.
Al centro un triangolo, per una volta senza sesso, senza brividi caldi, un triangolo fatto di esseri umani come tanti, di lavoratori come tanti.
Poi, ad un tratto, qualcosa si spezza, e qualcuno che era in vita non è lo è più. Facile trovare il colpevole ma non è la cosa dia qualche soddisfazione, tanto per dire come Bubble col suo profilo volutamente basso (budget ridottissimo, tre settimane di lavorazione, attori dilettanti scelti sul luogo stesso delle riprese…), sembra faccia di tutto per passare inosservato.
Eppure al tempo stesso riesce a raccontare un pezzo degli iùesei meglio di qualsiasi Superbowl, meglio di qualsiasi route, meglio di qualsiasi action, meglio di qualsiasi happy meal.
Poi, i primissimi piani del volto di Debbie (Doebereiner Martha, una sorta di Kathy Bates dei poveri…), con gli occhi spalancati al punto che sembra di perdercisi dentro, lasciano un buco nell’anima grande così…
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