Senza dubbio uno dei film più visionari apparsi all’ottava edizione del Far East Film Festival di Udine, Rampo Noir si ispira a quattro racconti del celebre scrittore giapponese Edogawa Rampo (nome d’arte di Hirai Taro), il cui suono ricorda quello del grande Edgar Allan Poe. Uscito in Giappone nel 2005 e strutturato su quattro episodi, il film riunisce due giovani talenti - Takeuchi Suguru e Kaneko Atsushi, rispettivamente registi del primo e del quarto episodio - e due autori di vecchia data del cinema giapponese - Jissoji Akio, che dirige il secondo episodio ed è inoltre stato protagonista di una miniretrospettiva personale al FEFF 8 con altre due pellicole (fra le quali Murder on D Street, anch’essa tratta da Rampo), e Sato Hisayasu, regista del terzo episodio. Oltre allo spettro di Rampo e alle sue atmosfere sottilmente perverse e inquietanti, il filo che lega gli episodi è quello della follia paranoide e del tema del doppio, simboleggiati dalla presenza ossessiva degli specchi, o dei loro omologhi - un lago o una sfera bianca. In tutti e quattro gli episodi, inoltre, figura l’attore Asano Tadanobu, interprete fra gli altri dell’ispettore Akachi.

            Il film si apre con l’episodio più breve e in stile videoclip, Mars Canal, in cui immagini sincopate e nervose di corpi nudi e violenti lasciano lentamente emergere un omicidio, compiuto dal protagonista ai danni della donna amata. Rimasto solo, l’uomo piange, strepita e si specchia in un lago, intuendo forse che “la vita è ciò che vediamo riflesso in uno specchio”.

            In Mirror Hell, la presenza dello specchio si fà più intensa e demoniaca, e nello stesso tempo sontuosa. “La vita è il riflesso di uno specchio. Non é né reale né irreale, semplicemente é”, recitano alcuni versi scritti sulla pergamena di un tempio, dove spesso si reca un giovane e bellissimo forgiatore di specchi, Toru (Narimiya Hiroki), da cui si servono molte allieve e maestre della scuola di cerimonia del thé. Lentamente, diverse di queste donne muoiono misteriosamente dopo essersi osservate a lungo in uno specchio, e il detective Akachi cerca subito di contattare Toru, per capire se abbia a che fare con la faccenda. “Anticamente in questo paese”, dice Toru ad Akachi, “gli specchi erano venerati come dei”: ciò che lui crea altre non sono che delle divinità moderne, la cui purezza viene spezzata dall’imperfezione della mente umana. Gli specchi rappresentano un’entrata verso un’altra dimensione, ma anche un tributo speciale al Kinkai Waka Shu (Poesia Giapponese dell’albero della pagoda dorata), silloge scritta da Sanetomo Minamoto e risalente al 1212, dove si può leggere il verso: “la vita è riflessa in uno specchio”. Toru sembra fare della propria vita un tributo a tali parole, finendo per trasformare il mito occidentale di Narciso in qualcosa di molto più inquietante e mistico, in cui l’aldilà dello specchio rappresenta il fine ultimo di ogni azione e di ogni ricerca.

            In Caterpillar, su un’isola scampata ad un terremoto che ha distrutto Tokyo, un misterioso artista, L’Uomo dalle Venti Facce, ha lasciato in eredità le sue creazioni eccentriche alla nipote (Okamoto Yukiko) e al suo assistente (Matsuda Ryuhei). Le opere - pezzi di arti umani racchiusi sotto vetro - sono oggetto di culto da parte dell’assistente, che spia i movimenti della donna con il marito reduce di guerra (Omori Nao), tornato sfigurato in volto e privo degli arti superiori e inferiori. La donna, pur seviziando il marito in ogni modo, ama profondamente la sua natura di bruco, mentre l’uomo, privato ormai anche dell’uso della bocca per parlare, si chiede se il suo corpo sia ormai ridotto ad un semplice specchio per le azioni macabre eppure così amorose della moglie. “La gente si trasforma in qualcos’altro quando si osserva in uno specchio”, dice candidamente l’assistene alla donna chiamandola dea, e definendo l’uomo-bruco un autentico capolavoro d’arte da esporre nei musei. Il ragazzo, che è voce dell’abisso ed insieme probabile riflesso della coscienza della donna, cerca di rendersi spia di una verità che la donna fa di tutto per tenere nascosta, finché, cedendo al desiderio di farsi farfalla unendosi alla carne del proprio uomo, non deciderà anche lei di denudare la propria anima di fronte alla telecamera-specchio del ragazzo, finalmente respirando all’unisono con il marito.

            In Crawling Bugs, un autista (Asano Tadanobu), ossessionato dai germi e dal contatto con gli altri esseri umani, s’innamora dell’attrice (Ogawa Tamaki) che conduce ogni sera dal teatro fino a casa, o a casa dell’amante (interpretato dallo stesso attore). L’uomo vorrebbe avvicinare la donna e nel contempo guarire dalla sua malattia, di cui discute con uno psicologo, ma a nulla valgono i suoi tentativi: le visioni colorate che trasformano la sua stanza in un arcobaleno di luci e sfere perfette d’amore che non bastano ad evitare il contagio che l’uomo precepisce in ogni suo contatto con l’esterno. “Mentre io parlo, il mondo collassa”, pensa ossessivamente in ogni istante. I germi decompongono ogni cosa, perfino lo sguardo rubato dallo specchietto retrovisore dell’auto per poter catturare l’immagine della donna amata, impossibile da possedere.  Toccarla lo renderebbe vittima dei germi, e allora l’unica soluzione è renderla inanimata, per poterle stare vicino senza soffrire. Alcuni sprazzi di visione ricollegano l’omicidio del primo episodio con la vicenda narrata nel quarto, e il cerchio si chiude: forse la vita è davvero uno specchio, e i gesti estremi sono i riflessi perduti dell’io nascosto.

            Visionario, decadente, raffinato, sadico e pulp, Rampo Noir è un film notevole, che risulta a volte discontinuo nel suo legare vicende non sempre chiaramente riconducibili l’una all’altra, ed in cui l’eleganza dello stile di Jissoji, unita al preludio delirante di Takeuchi, finiscono per imporsi nella memoria rispetto ai rimanenti episodi, forse troppo stridenti rispetto allo stile sopra le righe dei primi due segmenti. Il quarto episodio, in particolare, sembra non c’entrare nulla con tutto il resto: il tono è grottesco piuttosto che onirico e sensuale, la presenza degli specchi e la metafora del doppio sono poco più che semplici accessori, e lo splatter è gratuito. Il film poteva tranquillamente interrompersi con il terzo episodio; sarebbe risultato più coeso e unitario sia a livello di stile che di contenuto e simbologia. In ogni caso, Rampo Noir resta un’opera da apprezzare per la sua coraggiosa (anche se a volte insulsa) miscellanea di stili.