«Dove? Daunanda?».

«Voglio dire, in Australia, e mi sono sposato – poi ho anche divorziato, ma non c’entra – con una australiana, Dragica, be’, non è proprio australiana, è serba, anzi, montenegrina, i suoi sono di Podgorica, ma è cittadina australiana e…».

«E hai preferito cambiarti il nome, ho capito. Ma tu sei italiano, o no?».

«Sì, di Genova».

«E perché avevi un nome spagnolo se sei italiano? E perché hai dovuto scegliere un nome italiano per diventare australiano?».

José sembrò per una volta sprovvisto di parole. La ragazza restò un attimo a fissarlo, poi cominciò a ridere, all’inizio piano, poi sempre più forte, coinvolgendo alla fine tutto il gruppo, indonesiani compresi, che non potevano aver capito un accidente di tutta la conversazione.

«Scusa», disse Esther quando si fu calmata. «Solo che siete così buffi».

«Buffi, eh», disse José tirandosi la barba.

Esther rise ancora, ma poi si fece improvvisamente seria.

«È strano, se ci pensi, ma i nomi sono importanti. Uno dovrebbe essere sempre lo stesso, indipendentemente dal nome, no? Invece prova a pensare a te con un altro nome. Pensi che saresti la stessa persona?».

Cercai di immaginarmi cosa sarebbe stata la mia vita se mi avessero chiamato Gaetano. O Nigel. O Mustafà. Mustafà non era male, ma avevo il sospetto che, con un nome così, non tutto sarebbe rimasto uguale. Forse la ragazza aveva ragione. Stavo per dirglielo, ma in quel momento José le sfiorò il pendente d’argento con il turchese.

«Bello. È indiano, vero?».

«Si, l’ho comprato a Jaipur».

Un momento più tardi José era partito nella rievocazione delle sue avventure indiane. Lei sembrava ascoltarlo affascinata, ridendo ogni tanto con la sua risata forte e contagiosa. Mi voltai verso Aji che stava finendo di rollare un altro joint. Lo leccò e me lo porse perché lo accendessi.

«May be you again hard smoking man now».

«Forse», dissi dopo un attimo. E accesi.

I pensieri presero ad accavallarmisi nella mente, intanto che le palme e tutto il resto del mondo cominciavano a ondeggiarmi intorno. Aji si era sdraiato sull’erba, lo sguardo fisso verso la luna, gli altri due tipi erano intenti a finire di ubriacarsi e José mi dava quasi completamente di spalle, isolandomi da Esther, con cui era impegnato in una conversazione fitta.

Per quella sera l’elettricità non tornò. Dopo un po’ qualcuno fece comparire una chitarra acustica e intonò un pezzo reggae e altre voci si unirono alla sua. Aji non si era ripreso dal suo stato comatoso e José e la ragazza erano gradualmente scivolati qualche metro più in là. Restai un altro po’, cullandomi nello stordimento dell’erba e dell’alcol, ascoltando la musica e lasciandomi accarezzare dalla brezza che veniva dal mare, poi decisi che ne avevo abbastanza. Mi alzai, mormorai un saluto collettivo di cui nessuno si accorse, e tornai a casa a piedi.

Raggiunsi il bungalow che a volte dividevo con José. Io e lui ci scambiavamo con disinvoltura le reciproche dimore. A me capitava spesso di passare le notte sulla barca quando avevo voglia di starmene fuori da tutto, e altrettanto spesso era lui a fermarsi da me quando aveva da fare in paese, o quando tutti e due si tirava tardi a bere birra e a chiacchierare con altri surfisti, gruppo nel quale io venivo incluso per i buoni uffici di José. Almeno, credo. José surfa. Io, no. Né mai lo farò. Ci sono modi meno faticosi per suicidarsi.

Finii di lavarmi i denti, mi risciacquai la bocca e alzai lo sguardo verso lo specchio. Il volto che mi fissò nella luce fioca della candela non era il mio. Non del tutto, per lo meno. Era come se la mia faccia si fosse sdoppiata in un copia, simile ma distinta, dell’originale. Il respiro mi si fermò, poi la fiamma vacillò e tutto ridivenne normale. Scrollai le spalle. Nulla di strano. Poca luce e un vecchio specchio deformato. Ma per un momento, mi ero sentito come se dentro di me vivesse un’altra anima nascosta.

Uscii e andai a sdraiarmi sull’amaca, ad ascoltare il vento che soffiava fra le palme. Il sonno mi avvolse senza che quasi me ne accorgessi. Qualche tempo dopo Esther si avvicinò e mi prese per mano. Sorrise, e ci baciammo, ma quando mi staccai da lei, il suo viso era quello di una sconosciuta. Qualcosa si mosse, nell’ombra del giardino. Un uomo venne verso di me. Poi un altro, e un altro ancora. Cercai di scappare ma ero circondato da una folla che mi schiacciava.

Avevano tutti la stessa faccia. La mia.