«Questo è Rodolfo, un mio vecchio amico», disse José in italiano.

Lei mi diede un’occhiata e sorrise. «Mi chiamo Esther», disse. I suoi occhi brillarono nella luce della luna.

Contraccambiai il sorriso. Ciglia lunghe. Denti bianchi che le mordicchiavano il labbro inferiore.

«Di dove sei?», mi chiese. Solita domanda a cui non sapevo mai come rispondere.

Naso affilato. Pendente con pietra azzurra, forse un turchese, montata in argento al collo.

«Di Milano. O almeno, lo ero. Non torno in Italia da… ho perso il conto. Quindici anni?».

Annuì lentamente come stesse soppesando l’informazione.

«Quindici anni. È un bel po’. E ora dove vivi?».

«Singapore», risposi, dopo un attimo di esitazione. No, pensai. Non più. Non più da quasi due mesi. Dopo cinque anni di vita regolare, non era facile riabituarsi all’idea di non avere una fissa dimora. Dove vivo adesso? In una topaia su un’isola indonesiana? Sul ponte della barca di un amico?

«Singapore? Anch’io ci ho abitato, per un po’». Si interruppe, come se avesse deciso che era scortese parlare solo di lei. «In che parte di Singapore?».

«Lloyd Road. È una trasversale di Oxley Road».

Mi diede un’occhiata incuriosita. Okay, chiediti pure come potessi permettermi una casa in Oxley Road. Era stato un colpo di fortuna. Ormai, tranne che per pochi condomini degli anni sessanta miracolosamente sopravvissuti alla speculazione edilizia, tutta la zona di Oxley era occupata da ville unifamiliari con giardino. Ci ero arrivato per puro caso, in quella casa, il giorno stesso che l’inquilino, un cinese di Vientiane, aveva deciso di ritornare in Laos prima del previsto. Mi aveva presentato la padrona di casa e nel giro di mezz’ora l’appartamento era passato a me.

«Bella zona», disse lei, dopo una pausa.

«Tu dove stavi?».

«Un po’ più fuori. Dalle parti di Newton Circus, hai presente?».

Annuii e attesi che lei dicesse qualcos’altro, ma non lo fece. Restò in silenzio, a guardare le foglie delle palme muoversi nel vento, il bianco degli occhi che lampeggiavano nel buio.

Avevo la febbre. Si fa per dire, era come una specie di formicolio che mi percorreva il corpo, spingendomi lo stomaco verso i polmoni e togliendomi l’aria. D’accordo, avevo fumato ed era erba buona e veniva da Aceh, nel nord di Sumatra, dove in barba alla Sharia, la legge islamica in vigore nell’intera provincia, e ai bombardamenti dell’esercito governativo che da un po’ di mesi aveva ripreso ad attaccare i ribelli autonomisti, qualcuno riesce ancora a mantenere il buon senso di coltivare la canapa. Ma non erano stati solo erba e alcool a provocarmi quello stato di delirio. C’entrava parecchio anche la vicinanza con la RBR.

Dalla quale, per dirla fino in fondo, ero attratto parecchio. Nulla di strano, quella avrebbe attratto un monaco tibetano in procinto di entrare nel Nirvana. Peccato solo che, al di là di quelle quattro parole che c’eravamo scambiati, non sembrava essere molto interessata a me. Cercai qualcosa di brillante da dire, ma non mi venne in mente nulla che non fosse banale. Perché poi devi per forza avere qualcosa da dire? Non puoi stare vicino a una donna e startene zitto a guardarla?

«Che ci facevi a Singapore?». Domanda originale. Continua così Rodolfo e andrai lontano.

Non rispose. Abbassò gli occhi verso la bottiglia piena di Arak e Coca sull’erba, vicino ai piedi di Aji. La prese, diede un sorso e me la passò.

«Sei qui in vacanza?», disse, un istante più tardi.

«Anche. Sono venuto a vedere José. Lui abita qui. Siamo vecchi amici».

«José?». disse Esther, aggrottando la fronte. José Luis si girò verso di noi.

«Mi chiamo Giacomo adesso», intervenne. «Mi dispiace, mate, mi sono dimenticato di dirtelo».

«Giacomo?».

«Giacomo, sì. È il mio vero nome».

«Giacomo», ripetei piano. Suonava uno strazio. Senza contare che, dopo anni passati a chiamarlo José, di cambiargli nome non se ne parlava nemmeno. «No, senti, io a quel modo non ti ci chiamo. È ridicolo».

La ragazza aveva seguito lo scambio di battute fra noi due passando lo sguardo incuriosito da un volto all’altro, come stesse seguendo una partita di ping-pong.

«Scusatemi se vi interrompo, ma siete davvero sicuri di essere vecchi amici?».

«Be’, sì», dissi. «Voglio dire…».

«E del tuo vecchio amico non sapevi nemmeno il nome?».

«È un po’ complicato, lo so, ma…».

«È una questione di passaporti», disse José con sicurezza. «A un certo punto della mia vita sono finito a vivere down under…».