Non si vedeva nessuno.

Riprese ad avanzare più adagio. Una decina di minuti più tardi sbucò dal bosco e si trovò vicino al punto in cui aveva iniziato la sua passeggiata quel mattino, prima che quell’incubo le piombasse addosso. Si fermò, acquattandosi dietro un albero di tamarindo e si guardò intorno.

La Suzuki era ancora dove l’aveva lasciata.

Si avvicinò lentamente. Nulla si mosse fra il suono delle cicale nella radura.

Abbassò la maniglia e aprì la portiera.

Fece per sedersi al posto di guida ma prima che riuscisse a fare un altro movimento una mano le afferrò la spalla. Cercò di voltarsi ma qualcuno le gettò un sarong sul volto. Altre mani le si strinsero alle caviglie e sotto le ascelle e si sentì sollevare da terra in un unico movimento.

Venne trascinata via fra urla soffocate.

2

«Sei in un posto che è la fine del mondo e ancora non riesci a rilassarti», farfugliò José Luis senza rinunciare al suo stupido tentativo di stappare una bottiglia di Arak con i denti. La cosa non contribuiva molto a rendere le sue parole più chiare, ma non me ne curai. Era tipico di José sparare idiozie al mattino.

Gli anni non lo avevano cambiato molto. Le strisce di bianco sulla barba rossa erano aumentate e l’attaccatura dei capelli era arretrata di un paio di centimetri, ma a parte ciò, continuava a essere lo stesso demolitore di palle che avevo conosciuto in Messico. Per la cronaca, sto parlando di quasi dieci anni fa, quando io e lui eravamo stati coinvolti in una serie di disavventure che per poco non ci costavano la pelle. Grazie a José, naturalmente, e alla sua peregrina abitudine di trascinarmi in imprese commerciali di scarsa utilità, dai rischi astronomici e dalle probabilità di successo inferiori a zero. Alla fine José aveva deciso che il Messico non faceva per lui ed era partito alla volta di Zanzibar, per soddisfare un suo vecchio pallino e quella era stata l’ultima volta che lo avevo visto. Fino a poco meno di un anno fa, quando me lo ero trovato di fronte nel pieno centro di Singapore, reduce da un matrimonio fallito con un’australiana.

Per quanto riguarda me, dopo la sua partenza non c’ero rimasto ancora molto in Messico. Nel giro di nemmeno un anno mi ero già ritrovato a vivere a Santa Cruz, California, con una moglie colombiana, Marisol, e un figlio, Sundance. Un bel bambino. Tutto sua madre, per fortuna. Me li sono lasciati alle spalle – qualche sciagurato figlio di buona donna dice “abbandonati”, ma che ne può sapere lui? – quando sono andato a vivere a Singapore. Ma questa è acqua passata. O forse no. Quién sabe?

Mi accoccolai sul ponte e mi guardai intorno, mentre il beccheggio della barca accentuava il torpore che la notte passata in bianco mi aveva lasciato appiccicato addosso.

Eravamo ancorati a pochi metri da una spiaggia semicircolare di sabbia bianca. In lontananza, si sentiva il frastuono delle onde che rovesciavano montagne d’acqua contro le forme contorte di lava nera schierate a chiusura della baia. Alcune sembravano torri e fortezze crollate, altre erano draghi e lucertoloni, congelati nel momento della caccia e pronti a ritornare in vita da un momento all’altro. All’estremità est, un fungo di lava eroso alla base sembrava un’enorme testa a due facce, una specie di Giano intento a sorvegliare l’accesso alla baia. Nel cielo, una coppia di aquile pescatrici dal ventre bianco si lasciavano trasportare inerti dal vento.

Più che la fine del mondo, sembrava il mondo come doveva essere stato un attimo prima che lo scriteriato che l’aveva creato decidesse di proseguire con il suo assurdo progetto e desse vita all’uomo. Certa gente non capisce mai quando è ora di fermarsi. Riportai lo sguardo sul volto contratto di José.

«Perché non usi un apribottiglie?».

Mi diede uno sguardo di compatimento e strinse ancor di più la mascella. Girò il collo di scatto e il tappo venne via.

«Devastante», dissi. «Mi ricordi uno che ho visto al circo. Roteava su se stesso appeso per i denti a una cinghia di cuoio a venti metri di altezza. Gli australiani si fanno impressionare da questo genere di cose?».

Sputò il tappo in mare e versò l’Arak in una bottiglia di plastica, riempiendola fino a metà. Aggiunse il contenuto di due lattine di Coca-Cola, mescolò e me la passò.

«Ehi, mate», disse, pronunciando la parola alla australiana, cioè mait. «Io non sono un ozi». Il che, tradotto in una lingua più umana, voleva dire, grosso modo, “io non sono australiano, amico”, ed era decisamente un non sequitur. «Di australiano ho solo il passaporto», aggiunse un momento più tardi con una sorta di dignità offesa.