PARTE PRIMA

Lombok, Indonesia

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La donna sbucò di corsa da dietro le rocce. Avanzava con la grazia di un’antilope, a falcate ampie, le suole delle scarpette che sembravano appena sfiorare il terreno, i capelli biondi arruffati dal vento della corsa. Dalla fascia gialla che le cingeva la fronte, rivoli di sudore misto a polvere le calavano lungo le tempie e sulle guance. Gialli erano anche i pantaloncini da surf e la maglietta con il marchio Billabong sul petto. Non poteva avere più di venticinque, ventisei anni e se il posto non fosse stato del tutto deserto, avrebbe calamitato su di sé raffiche di sguardi avidi: corpo agile dalle forme armoniche, viso attraente dai tratti affilati, labbra piene e ben disegnate. Ma l’espressione tesa e gli occhi dilatati rivelavano tensione. E paura.

Continuò a correre lungo il fondo sabbioso del canalone, superò un’altra curva a gomito e si fermò, di botto. Il sentiero terminava in un groviglio di arbusti bassi e cespugli spinosi.

Studiò le pareti di roccia da entrambi i lati, ma erano troppo ripide per essere scalate.

Imprecò a bassa voce, il cuore che le pompava nel petto. Esitò ancora un attimo, poi si buttò fra i rovi, incurante delle spine che le graffiavano le gambe tracciandole la pelle di linee rosse. Una ramo le si impigliò nella maglietta, squarciando il tessuto.

Andò avanti con impeto, aprendosi un varco nell’intrico dei rami, finché non sbucò all’aperto. Il sentiero, ora quasi invisibile fra l’erba rasa, bruciata dal sole, si inerpicava lungo il rilievo. L’abbaiare dei cani risuonò in lontananza. Accelerò il ritmo e in pochi secondi superò la radura e iniziò a risalire il pendio.

Raggiunse la cima della collina e il vento dal mare la investì, facendola vacillare. Si trovò sul ciglio di un precipizio di lava nera che cadeva a picco nell’oceano. Giù sotto, torri bianche di spuma assediavano il promontorio da tre lati. Oltre le onde, il blu solido del mare si estendeva all’infinito verso sud, verso l’Antartide.

Si fermò, ansimando, e si premette con la mano l’addome, come se la pressione potesse lenire le fitte che le straziavano la milza. Nonostante il dolore, non poté fare a meno di apprezzare la bellezza cruda del mondo che la circondava.

Si voltò a scandagliare con lo sguardo la pianura, cercando di localizzare i suoi inseguitori. Per un momento si illuse di averli seminati, finché l’occhio le si fissò su una macchia di colore in movimento lungo il canalone: erano in cinque, tre di fronte, con i cani, gli altri due di poco staccati. Stavano avvicinandosi al punto in cui si era inoltrata nella macchia di rovi.

Sembravano lontani visti dall’alto, ma non si illuse: non aveva più di cinque minuti di vantaggio. Il terrore, che lo sforzo della corsa aveva contribuito a tenere lontano, tornò a farsi sentire e per un attimo si sentì sommergere. Poi reagì. Non poteva permettersi il lusso di abbandonarsi al panico. Riprese a correre verso ovest, tenendosi appena sotto il ciglio, quel tanto che bastava per celarsi alla vista dei suoi inseguitori. Qualche centinaio di metri più avanti il sentiero cominciò a scendere e lei si gettò decisa lungo il declivio, mentre una parte della sua mente continuava invano a chiedersi cosa le stesse succedendo.

La giornata era cominciata d’incanto. Quando e perché le cose erano cominciate ad andare così storte? In fondo, era in vacanza, dove non rischi mai di più di un colpo di sole. O di mangiare qualcosa che non va e passare un pomeriggio in preda alla nausea, mal che vada ti ritrovi con la dissenteria, il tifo, che so, l’epatite, e se non basta, se proprio sei sfigata, ti fai beccare dalla zanzara sbagliata e te ne torni a casa con la malaria. Ma questo? Banditi in sarong, armati di mitragliette e machete, che sembravano usciti dal set di un musical indiano?

Inciampò in una radice e cadde a faccia in giù, rotolando per una decina di metri. Si rialzò senza nemmeno registrare la botta al ginocchio e riprese la corsa.

Il pendio della collina terminava bruscamente di fronte a una parete verticale di terra e sassi. La spiaggia era immediatamente sotto di lei, un salto di non più di tre, forse quattro metri. Si lasciò cadere nel vuoto e atterrò carponi.

Si rialzò e avanzò a fatica, sulla sabbia che le cedeva sotto i piedi, le caviglie ormai indebolite dallo sforzo. Alla fine raggiunse il bordo del bosco e ritornò a correre, i talloni che colpivano con un tonfo cadenzato il tappeto d’erba rasa. Quando giudicò di essere abbastanza al riparo del tetto di foglie di cocco, si fermò. Scrutò fra il fogliame, finché riuscì a mettere a fuoco la cima della collina.