Con gli anni ’50 si raggiunge il picco nell’evoluzione del noir, si producono film fondamentali per trama e stile e non sono pochi i gioielli che segnano vette ineguagliabili per quanto riguarda personaggi, situazioni, temi e visioni. Dopo i capolavori di questo decennio il genere certo non si fermerà ma per mantenersi in vita avrà bisogno di finire e rinascere, mutare pelle e dna, contaminarsi, dimostrando ancora una volta di essere un sentimento più che un semplice genere narrativo. Un sentimento sempre attuale, perché attuale è sempre la questione etica, sentimento in metamorfosi necessaria, dato che il mondo cambia con rapidità nel dopoguerra, e in particolare gli anni ’60 e gli anni ’90 del novecento ridisegnano la realtà planetaria. 

Quelli di cui parliamo sono invece gli anni in cui il senatore McCarthy lancia una campagna persecutoria contro chiunque, all’interno dell’industria cinematografica, sia dichiaratamente comunista o solo simpatizzante o abbia come unica colpa fare film obbiettivi sugli Stati Uniti. Non presentare un’icona stereotipata e fasulla del sogno americano è abbastanza per essere accusati di tramare contro la patria, di essere nemici della libertà, di operare come sabotatori.

Joseph Mc Carthy
Joseph Mc Carthy
Molti dei migliori “artigiani” del noir finiscono sulle liste nere, perdono il lavoro e in qualche caso emigrano alla ricerca della libertà perduta in patria. Il noir dà fastidio perché parla di ciò  che non va, quindi chi detiene il potere lo colpisce accusandolo di cose che non fa e nemmeno vuole fare (antiamericani i film del nostro amato genere? Non scherziamo…).

Un periodo d’oro, come questo, è fatto di molti gioielli, di molti buoni film, storie e immagini che lasciano il segno, che disturbano, fanno riflettere o semplicemente affascinano. C’è solo l’imbarazzo della scelta e noi prendiamo in considerazione alcuni dei titoli che emergono per il loro impatto estremo e si caratterizzano per l’unicità della loro forma.

Cominciamo da quello che è un punto d’arrivo (e di non ritorno) dell’estetica del noir, Un bacio e una pistola (Kiss me deadly) di Robert Aldrich, anno 1955. In quest’opera tutto ciò che costituisce l’”immagine” del genere viene fatto esplodere, in modo che possa investire lo spettatore con le sue schegge, attrarlo nel racconto sulla base di stimoli quasi esclusivamente sensoriali. I fatti che costituiscono la storia sono tutti, per chi guarda, esperienze limite, fatte di puro movimento, pura cinesi. Scazzottate, sparatorie, inseguimenti, torture, omicidi: la violenza regna incontrastata e, mentre si mostra nella sua crudezza, resa iperreale dalla regia di un Aldrich in stato di grazia, mentre esibisce una ferocia fredda e capillare, non si cura di dare troppe ragioni della sua origine. Una ricerca disperata muove tutti i personaggi, che si scontrano e si eliminano in un crescendo che arriva fino all’apocalisse nucleare, letteralmente…

Mike Hammer, interpretato da un perfetto Ralph Meeker, è un investigatore ben lontano da Sam Spade e Philip Marlowe, in lui la dimensione morale che segna quei due cercatori è sostituita da quella istintuale. Non pensa molto ma picchia duro e raccoglie le informazioni da altri, senza esporsi in prima persona. Tratta le donne come un apicoltore le sue bestioline. Sembra, a prima vista, proprio il character creato da Mickey Spillane, con i suoi modi sbrigativi e una personalità appena abbozzata nel marmo. In realtà resta quasi nulla del romanzo di Spillane sulla pellicola di Aldrich che, come dichiarò, si limita a prenderne il titolo e buttare via il resto, facendo un grande lavoro sulla storia con lo sceneggiatore A.I. Bezzerides, a cui si deve la trovata dell’ordigno nucleare che chiude in modo davvero definitivo la trama. Non è l’unico caso in cui il cinema trae un capolavoro da uno scadente lavoro letterario (pare che Bezzerides, letto il libro, abbia detto: “fa davvero schifo…”). Un bacio e una pistola non è più rappresentazione di uomini e loro vicende, è una tela su cui sono tracciate le immagini finali della grande epopea del noir americano in bianco e nero.

Un’epopea che la critica del genere vede chiudersi tradizionalmente con il grandioso L’infernale Quinlan (Touch of Evil), 1958, dove Orson Welles erige, con il suo stile inimitabile e raffinato, un monumento consacrato allo scontro tra la luce e le tenebre, dove il tempo si declina solo al passato, dove chi vince perde le proprie certezze e chi perde guadagna se non altro l’oblio…

L'infernale Quinlan
L'infernale Quinlan
Una storia solo apparentemente manichea di due detective che si contrappongono in tutto, per farci poi scoprire che legge e corruzione occultano una uguale radice violenta; una linea di confine che continuamente attraversa l’azione dei personaggi: Welles profonde il suo talento sconfinato donando allo screen noir una profondità e un carisma irripetibili. L’infernale Quinlan è film che nei suoi meriti travalica abbondantemente il genere, essendo opera cinematografica straordinaria già a livello di materia prima visibile: il “corpo” sensibile delle immagini ci imprigiona e ci affascina; è luce caduta dalla volta celeste e divenuta carne: il corpo di Welles/Quinlan occupa l’inquadratura come un’ambigua escrescenza morale, è una malattia che dilaga, una malattia mortale che getta l’ombra del dubbio sulla visione oggettiva del mondo, è uno specchio scuro su cui chi si riflette può vedere i propri recessi, le proprie crepe.

Al di là dei detective, il noir maturo degli anni ’50 offre storie che mettono al centro dell’attenzione maggiormente le pulsioni. La sanguinaria (Gun Crazy), 1950, di Joseph H. Lewis, è emblematico in questo senso, vicenda estrema di passione erotica e eccitazione omicida.

La forza che trascina la pistolera Laurie e il suo “vincitore” Burt dalle esibizioni in un luna park itinerante a una vita da rapinatori con le armi spianate, è un’energia primordiale, basilare, travolgente. Questo nucleo energetico che li lega, che colpisce a morte il mondo organizzato e fasullo degli altri, che brucia la carne (sia quella offesa delle vittime sia quella palpitante degli amanti), che li brucerà quando nell’uomo appariranno indizi di redenzione, non è molto diverso, anche se posto su un differente piano simbolico, dall’energia atomica che incenerisce le brame dei protagonisti di Un bacio e una pistola. Quel nucleo incandescente che sta al centro della volontà di potenza di chi vuole conquistare il mondo o un mondo, cioè chi insegue il potere perché questo da privilegi nella vita o chi semplicemente insegue la vita piena, con il suo gusto acre, perché questa è il vero potere. Che differenza c’è tra volere il mondo per sé, anche a costo di distruggerlo, e volere per sè l’amore assoluto, sapendo che il prezzo è quello più alto?

L’amour fou che trascina Burt e Laurie in una spirale di sangue che alimenta, forse ancor più del sesso, la loro relazione, e che alla fine la distruggerà, appare una necessità, un istinto, un imperativo bio-psichico che dona la pienezza dell’essere in cambio della morte del corpo e della negazione della civiltà… L’amore della coppia assassina non può restare a galla in mezzo a tanto sangue e sarà Burt, avvelenato dal rimorso, a giustiziare Laurie prima di essere crivellato dalla polizia. Il tutto sotteso a una narrazione bellisssima, costruita da una regia ricca di intuizioni e sentimento.

Come l’analisi di questi tre film dimostra, il noir si è lentamente spostato dall’analisi dell’interazione tra legge e fuorilegge all’interno della società, allo scandaglio dei rapporti pulsionali e istintuali tra individuo e civiltà.

Nella stessa direzione, seppur con un impianto di base da favola (e non da tragedia come è quello di La sanguinaria), va La morte corre sul fiume (Night of the hunter), uno dei due unici film girati come regista dall’attore Charles Laughton nel 1955.

Film cult per eccellenza, ci rende partecipi della caccia che un sedicente e sadico predicatore da a due bambini sullo sfondo di un’ America rurale e profonda. Calati in un’atmosfera davvero inusuale, lontani dallo sfondo urbano tipico del genere e da ogni modello consolidato trama/personaggi, seguiamo questa favola nera ipnotizzati dalla magnetica presenza di Robert Mitchum, il reverendo che porta scritte sulle dita delle mani le due parole chiave dell’esistenza, love/hate, e che da sfogo alla propria personale religiosità attraverso l’omicidio. Con un lontano odore di pedofilia, immerso in atmosfere dove sogno e incubo si fronteggiano in un precario equilibrio, questo film si offre anche come potente crossover onirico di generi e stili del cinema americano. Lavoro unico (e inimitabile) per molti aspetti, La morte corre sul fiume dimostra come il noir, concentrato su figure e schemi ricorrenti come tutti i generi, sia in grado, molto più e meglio degli altri generi, di ri-costruire secondo il proprio punto di vista regioni e temi della vicenda umana a prima vista riservati ad altri registri espressivi.

Ritornando a quanto detto all’inizio, noir è un sentimento e, tra tutti quelli che il mondo ci insinua nell’animo, forse il più sincero… A dimostrarne potenza e duttilità c’è tutto ciò che segue e travolge il noir classico, il quale rimane in ogni caso padre non rinnegabile di tanto cinema emozionante e poco rassicurante…