Da Prova a prendermi a, una volta acciuffato, prova ad incastrarmi (se ti riesce…). Da La parola ai giurati, dove i giurati (dodici come gli apostoli…) erano i protagonisti, e Henry Fonda il minority report, il rapporto di minoranza che scalfiva la certezza granitica degli altri undici sulla colpevolezza dell’imputato, a una variazione sul tema della fallibilità umana, dove l’attenzione stavolta è centrata sul boss Jack DiNorscio/Vin Diesel che scegliendo di autodifendersi da pesanti accuse riesce a ottenere l’assoluzione piena per sé e per gli altri imputati.
Il veterano Sidney Lumet alle prese stavolta con la trasposizione cinematografica del maxiprocesso alla mafia più lungo nella storia statunitense, 20 imputati, 77 capi d’accusa, 21 mesi di udienze, il tutto tra l’87 e l’88, licenzia un film che a tratti funziona e a tratti no.
Quando funziona lo fa nel solco della tradizione dei film giudiziari iùesei: botta e risposta tra accusa e difesa, inquadrature secche, ritmo serrato, ma soprattutto l’autodifesa molto naïf del boss DiNorscio, al quale Vin Diesel (imbolsito a dovere per l’occasione), offre spunti recitativi e variazioni sul tema dell’agnello sacrificale pronto ad addossarsi ogni colpa pur di non tradire gli amici, “quasi” inaspettate, dove il “quasi” va inteso non come di circostanza, giacché si intuiva largamente, a iniziare da Pitch Black, che quanto a carisma Vin Diesel non fosse secondo a nessuno.
Prova a incastrarmi inizia a perdere colpi quando viene meno il tono brillante che aveva contraddistinto la prima parte della storia (e che astutamente il promo sottolinea…), così che lo spettacolo diventa troppo declamatorio, le parole abbondano, la noia inizia a fare capolino qua e là, e ci si distacca dalla vicenda ben prima della fine.
Quando a qualcuno salterà in mente lo sghiribizzo di trovare un contraltare ai bravi ragazzi di scorsesiana memoria, be’, quelli immortalati da Sydney Lumet faranno la loro bella figura: un po’ teneri, un po’ guasconi, in fondo inoffensivi, tant’è che dopo l’assoluzione sciamano felici fuori del palazzo di giustizia lanciando fiori verso il loro salvatore, quasi una scolaresca solo un po’ rumorosa in gita a uno dei santuari della giustizia (l’altro è il carcere…)
Se c’è una domanda che rimane senza risposta è la seguente: il giudizio umano allorquando si applica alla legge terrena e alle umane azioni è fallibile per via della natura umana o a causa delle regole che il sistema giudiziario le impone?
In concorso al 56mo Festival di Berlino.
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