Stay, di Marc Forster (autore cinque anni fa del molto bello Monster’s ball), un confuso ancor prima che pasticciato thriller meta-psichico (cosa esiste, ammesso che esista, al di là dei cinque sensi e del cervello che ne organizza i dati?) che una platea, non molto numerosa per la verità, segue in rispettoso silenzio (forse dovuto forse alla circostanza che il film nella sua inafferrabilità finisce con l’incutere una certa soggezione).
Tracciare un percorso coerente all’interno di una storia che iniziata con un tradizionale rapporto terapeuta-paziente finisce col perdersi in un labirinto che somma senza che i conti tornino déjà-vù, deragliamenti d’identità, premonizioni, con un lavorio sulle immagini quanto mai barocco capace di produrre a tamburo battente sovrapposizioni, ripetizioni, distorsioni, punti di vista leziosamente insoliti con relativa faccia spaesata di Ewan Mcgregor, è chiedere troppo, per cui la cosa da fare è lasciare che ognuno giudichi da sé.
Il consiglio è quello di immunizzarsi ripensando al lucidissimo, in termini di messa in scena, e fecondo, sul piano dei significati, cinema di M. Night Shyamalan.
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