Tensione.
Se mi chiedeste di indicare una, una soltanto, delle caratteristiche salienti di Dark Water, punterei in questa direzione.
Una tensione sottesa, pregnante, ben distribuita in quasi tutti i racconti che compongono questa antologia. Senza particolari acuti, in un certo senso, ma ciò è compatibile a una narrazione che dà il meglio di sé quando ingenera ansia, piuttosto che terrore.
Del resto, l’abilità a tessere le fila invisibili del thrilling è una delle doti dimostrate dall’autore non solo nella presente occasione.
Svariati lettori hanno infatti già avuto modo di sperimentare lo stile e le atmosfere di Koji Suzuki grazie ad altre sue opere pubblicate in Italia dalla Nord: Ring, Spiral e Loop.
Altri hanno attinto alle sue visioni horror in modo indiretto, attraverso cioè i filtri dell’approccio cinematografico firmato in primis da Hideo Nakata, che in più di una occasione ha portato sul grande schermo le ghost stories di Suzuki, in particolare con l’esemplare trasposizione di Ring (il primo film della trilogia è veramente inquietante). Altri ancora, per merito dei remake americani delle originali pellicole giapponesi.
Dark Water stesso, o meglio il soggetto di uno dei racconti presenti, è divenuto film.
Ma sono qui per parlarvi di letteratura, non di cinema.
Dark water. Titolo evocativo, immediato, consono.
E’ l’acqua, è evidente, il fil rouge di questa nuova proposta di Suzuki.
L’acqua che ora scorre, ora permea, ora stilla, ora si contorce in ondate tempestose, ora s’insinua nei polmoni, ora inganna, ora nutre…
L’acqua di un mare spesso inquieto, a volte tomba, a volte custode di ancestrali segreti. Ma anche quella che fluisce negli abissi della terra; quella di una cisterna sopra un condominio; quella che fa da tramite a uno spettro; quella di un rubinetto che perde nel momento meno opportuno…
L’acqua che è vita e morte.
Realtà e illusione.
Paura, a volte…
L’acqua. E il suo lato oscuro.
Sette i racconti di Dark Water, corredati da un prologo e da un epilogo, legati principalmente all’ultima storia.
Sette novelle in cui emerge la capacità di Suzuki di far immedesimare il lettore nei protagonisti, inizialmente calati in un contesto di sostanziale “normalità”. Uso questo termine anche per definire situazioni familiari o individuali problematiche, che non dovrebbero purtroppo essere riconducibili alla consuetudine. Come nell’esempio del capofamiglia ubriacone e manesco.
E’ attraverso la trasfigurazione di un quotidiano spesso sofferto, anche se a più livelli (dall’insoddisfazione fino alla turba psichica) che lo scrittore ci trascina verso l’orrore che sta oltre il reale, o dentro di noi.
Koji Suzuki ci dimostra che, per avventurarsi con successo nell’horror, nel sovrannaturale, fino ai loro macabri confini e nelle “twilight zones” di una realtà già di per sé agghiacciante, bisogna innanzitutto esplorare l’Uomo e la società in cui vive.
Sono storie che possono sembrare, e in alcuni casi sono, un po’ scontate nel finale. Ma Suzuki ha l’abilità di farci restare incollati alle pagine nonostante questa consapevolezza.
Ne è un esempio La foresta in fondo al mare, un bel racconto sui legami tra padre e figlio, e sulla volontà di far sopravvivere tale legame alla fregatura di una morte anticipata.
La narrazione si sviluppa come una discesa – che si trasformerà in trappola - nel grembo della terra, dove la sua linfa, l’acqua, ora lacrima dalla stalattite, ora scorre impetuosa tra le formazioni carsiche.
Generalmente, Suzuki sa far vivere le scene al lettore, piuttosto che renderlo spettatore. In tal senso, non mi sorprende che numerosi suoi soggetti letterari siano approdati al cinema.
Un’ultima annotazione.
Si recensisce un libro per i suoi contenuti, ma non è sbagliato spendere una parola su come si presenta graficamente. Quando ne vale la pena, perlomeno.
Personalmente, ammetto di aver sempre amato trovarmi tra le mani un volume dalla copertina elegante e affascinante. Tanto più se appropriata.
Beh, quella di Dark Water è perfetta.
Una superficie liquida piatta, apparentemente calma. In realtà, è un mare – o un lago che sia – che sta dove non dovrebbe. Che riflette la realtà in modo speculare, quindi ingannevole.
La scelta fotografica gioca poi su una gradazione cromatica che sfuma verso l’oscurità.
Sì: benvenuti nella tensione.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID