G. guidava distratto, da quasi sei anni percorreva lo stesso itinerario e questa volta l’idea di rientrare a Milano gli pesava più del solito.
G. partiva ogni mercoledì verso le 15, svolgeva i propri incarichi di amministratore delegato per dovere, cenava al Principe, tradiva la moglie con rassegnato entusiasmo e ripartiva il giovedì mattina verso le 10 dopo aver silenziosamente pagato il conto.
Ogni settimana, da sei anni.
Questa trasferta poi era stata particolarmente sofferta; l’accordo con i belgi si dimostrava inaspettatamente difficile, l’antipasto di pesce della sera prima lottava ancora con il suo stomaco e la giovane ragazza russa che aveva accolto nel suo letto con sbiadita passione non aveva che aumentato quel senso di nausea che adesso sembrava soffocarlo.
Arrivato allo svincolo per Milano sbagliò: per la prima volta dopo sei anni la sua auto non svoltò, ma proseguì dritta ed imboccò un’altra uscita.
Attraversò Rozzano muta e desolata non capendo dov’era, quella zona era nuova per lui; cominciò a riavvertire la solita morsa allo stomaco, sudava e una specie di nodo alla gola lo investì così come un’improvvisa e immotivata voglia di piangere: “oddio, pensò, ma allora sono depresso”.
Accostò in un vialetto alberato e scese. Faceva caldo e il trench di velluto per quanto leggero gli dava fastidio; lo piegò insieme alla giacca e lo chiuse nel bagagliaio, si allentò la cravatta e senza sapere dove portasse seguì il vialetto davanti a sé.
Il quartiere S. Abbondio si snodava solare in una moltitudine labirintica di stradine pedonali tutte uguali, traboccanti di alberi e incorniciate da una quantità incalcolabile di palazzi, centinaia e centinaia di appartamenti dai balconi bianchi e rossi che sembravano osservare indulgenti il suo procedere incerto. Alle spalle Via dei Missaglia rigurgitava il suo traffico drogato, poco più avanti le torri del Gratosoglio si innalzavano spoglie delimitando implacabili i confini della periferia, mentre lui si perdeva per vialetti anonimi e sorridenti, in una sorta di oasi che si ergeva con dignitosa fermezza trasmettendogli una sensazione indefinita, come di dolorosa quiete.
Che cosa ci faceva lì? Perché si sentiva come ipnotizzato da una donna che spingeva un carrello della spesa, dal sole che picchiava feroce sul campetto da calcio della scuola o dallo squarcio di un salotto velato da tende al primo piano? Gli venne da ridere, nonostante la morsa allo stomaco fosse sempre più forte, come poteva quell’ambiente estraneo, quella periferia modesta così distante dal suo mondo farlo sentire finalmente placato?
Sì, aveva sempre pensato che la felicità fosse così: picchi brevissimi, particolari comuni che improvvisamente metti a fuoco e ti riconciliano col mondo.
Ora era più leggero, tutto era più distante: il lavoro, i belgi, persino quella macchia scura che le lastre avevano scovato vicino allo stomaco e che da qualche mese lo spaventava, adesso era lontana. Girò a destra, si sedette su una panchina dei giardini di via Orlando prepotentemente risvegliati dall’inizio di primavera, tirò fuori dalla tasca il flacone di pillole e lo vuotò.
Chiuse gli occhi davanti al sole sfacciato e per un istante rivide sua moglie, la rivide bellissima con il vestito di satin blu e la spilla di perle piccole, rivide il giorno in cui nacque Gaia e per un attimo riprovò la stessa violenta vertigine di gioia. Le abbracciò come non faceva più da anni.
Riaprì gli occhi, i balconi erano ancora tutti lì, a centinaia nascosti dalle fronde dei gelsi, e sembrarono perdonarlo.
Ecco un altro picco, sì, ora era finalmente, definitivamente felice.
Richiuse gli occhi.
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