Uno legge in fondo al volume le scarne note bio-bibliografiche di José Latour (1940), che tra l’altro sono la fedele traduzione di quel poco che circola, in inglese, su Internet, e si fa una certa idea dello scrittore.
Cubano, dopo aver scritto in spagnolo sei romanzi, esordisce con successo in inglese col thriller precedente a questo, Lontano da Cuba; notizie, questa volta reperite in Rete, lo indicano come ex importante funzionario dell’establishment nonché ancora residente nell’isola caraibica (anche se alcune fonti non controllabili sulla Rete lo danno trasferito da poco in Spagna). L’insieme di questi fatti ci dà la giusta chiave di lettura di questo bel thriller che inizia e termina, letteralmente, nel nome del protagonista Ariel Landa.
Landa è un duro ma puro che crede negli ideali socialisti, ha combattuto a suo tempo in Angola e ora vivacchia senza grandi speranze per l’avvenire dopo aver vista interrotta una promettente carriera di analista finanziario del mercato dello zucchero. Altro grande amore della sua vita sono le donne che, in verità, nel romanzo e nella sua vita non mancano né in quantità né in varietà: l’ex collega dei tempi d’oro Sheila, la dentista Cristina e l’archeologa (ma in realtà agente della Dea americana) Virginia.
Un bel giorno Landa viene contattato da un vecchio compagno d’armi e d’avventure in Africa, Maximiliano Arenas, che, a differenza sua, ha fatto carriera all’interno del regime, e invitato a riprendere la sua professione d’una volta al servizio del paese; avrà come base il Messico per aggirare l’embargo statunitense a Cuba: di qui, tra l’altro, il fuorviante titolo italiano mentre quello originale si attaglia perfettamente al protagonista Landa col quale, evidentemente, l’autore si sente in sintonia se il romanzo viene dedicato “ai molti allocchi di questo mondo, da un loro fratello”.
Ora, senza svelare alcunché dell’intreccio, è possibile tuttavia sottolineare l’improba fatica di Latour per conciliare l’inconciliabile: a partire dalla volontà di esprimere una realtà schiettamente cubana, ma nella lingua degli odiati yankees, per arrivare a una critica dell’esistente senza per questo attirarsi gli strali dell’occhiuta censura castrista.
Così si parla della vasta e ramificata corruzione degli apparati del regime, ma si fa risalire il tutto a scelte individuali e non di sistema. Si parla anche di intollerabili situazioni di privilegio, come quella che permette a Luisa Saragat di vivere in una lussuosa residenza pre-rivoluzione e da lì intessere le sue trame politico-sentimental-affaristiche, ma ci si salva l’anima con lo stupore un po’ indignato dell’ingenuo Ariel Landa.
Il quale, quando poi approda in Messico e si trova ben presto braccato dalla Dea e dalla polizia messicana, impersonata dall’ambiguo capitano Andrés Ruiz, si troverà a cercare rifugio tra gli ultimi discendenti dei maya i quali, in un impeto di istintiva solidarietà di classe, lo aiutano e lo proteggono fino al sorprendente finale (che abbia agito un’inconscia reminiscenza dell’ultima avventura del “Che”?).
Latour quindi mette sotto accusa la corruzione della società cubana anche e soprattutto a causa della droga, ma non ha il coraggio di tirare fino in fondo le conclusioni della sua analisi: l’impianto castrista del regime è sostanzialmente immune da critiche, rimane solo la debolezza dei singoli individui e/o cordate di fronte alle enormi somme messe in gioco dal cartello della droga per accaparrarsi i servigi di alti funzionari e ufficiali delle forze armate.
Ma il sistema ha, secondo Latour, in sé, e soprattutto nel suo passato, gli anticorpi giusti: e nell’epilogo riemerge la figura, consolatoria a tutti gli effetti, del padre di Ariel, Paco, integerrimo militante della rivoluzione che ha il compito di rappresentare, assieme a suo figlio (il “fool” del titolo) l’anima buona, ingenua della rivoluzione castrista che però ha buone possibilità di ottenere giustizia.
Se si dovesse giudicare Embargo da ciò che sottintende, saremmo francamente in imbarazzo: ma siccome il nostro compito è quello di valutare il thriller per quello che è, all’interno del suo genere, tralasciamo le crisi di coscienza politiche e/o personali di Latour e ci complimentiamo per la tessitura di una storia, davvero non banale, e, per molti aspetti magari involontari, profondamente rivelatrice degli attuali equilibri economico-politici cubani.
Voto: 7
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