Il mio primo incontro con la scrittura di Nicoletta Vallorani è avvenuto molti anni fa, presso un’edicola vicino all’Esselunga di viale Papiniano. Attratta dalla simpatica copertina di un’antologia a cura di Valerio Evangelisti (“Tutti i denti del mostro sono perfetti”, Urania, 1997) - che raffigura appunto un mostro dai denti perfetti - l’ho aperta a caso e sono capitata sull’incipit di Snuff Movie, dove si narra la storia di una bambina mutante con il tutù. La protagonista di quel racconto mi si è come “depositata” nel cervello, assumendo automaticamente una connotazione familiare, e quando, recentemente, ho ritrovato una sua reincarnazione in “Visto dal cielo” (dove c’è un’altra bambina che si chiama Tutù) ho capito che si trattava di un archetipo. I tuoi libri sono pieni di personaggi che hanno il sapore della leggenda: dove li vai a prendere? Oppure sono loro che ti vengono a cercare?

In qualche modo, sono loro che mi cercano. Per come lo vivo io, il processo di nascita di un personaggio mi pare del tutto involontario: un risultato del vivere, semplicemente, e delle tracce che l’atto stesso di stare al mondo lascia nel tuo tessuto emotivo. Non mi sforzo mai di costruire un personaggio. Aspetto che venga fuori, che si manifesti, che cominci a parlare. La voce è sempre familiare, in qualche modo: combina voci diverse, esistenze che mi hanno comunque sfiorata, toccata, turbata, senza che mi rendessi davvero conto delle tracce che lasciavano.

Tutù, per esempio, o la bambina di SnuffMovie: quando insegnavo nelle scuole superiori, se ne incontravano tanti di casi di violenze domestiche.

Come insegnante, potevi far poco o nulla. Però ascoltavi le storie, ti sentivi impotente, cercavi di esser d’aiuto, ti scontravi contro le barriere amministrative, e alla fine speravi l’unica cosa sperabile: che ogni vittima trovasse in qualche modo la forza di tirarsi fuori dal macello che era la sua vita. Qualunque insegnante può raccontarvi storie del genere. Nessuna riforma della scuola si è mai occupata di questo, mi pare. Qualche computer in più e un portfolio non mi pare che conducano in questa direzione. Perdonami, ma sono un po’ inasprita su questo: nessuno pare davvero occuparsi dei problemi reali. Che restano. Trasformare una storia di questo tipo  in un romanzo non la risolve: ne fa solo letteratura, che è un modo tragicamente riduttivo di prenderne atto.

Sempre a proposito di leggende, in “Visto dal cielo” scrivi: 

“Natale è fatto apposta per le leggende, e Milano ne produce come una nonna che si è fatta la sua prima pista di coca nel ricovero dove l’hanno lasciata a passare le feste. Non sa tenere la bocca chiusa, la ragazza, e infatuata delle sue capacità affabulatorie, monta e rimonta i resoconti della cronaca e le voci dei quartieri, i racconti dei vigili e le storie dei bambini ai giardinetti, le barzellette bilingue, i discorsi delle mamme, le pause pranzo ai telefonini e le promesse degli agenti immobiliari e degli assicuratori.”

Per me, che abito a Milano, leggere le tue storie produce sempre un senso di sdoppiamento rispetto ai posti (le strade, le piazze, le stazioni del metrò) in cui mi capita di passare. Una cosa simile mi accade soltanto con un altro autore: Scerbanenco, ma mentre in questo caso “l’altra” Milano risale agli anni ‘60, con i tuoi libri la città diventa quella che potrebbe essere fra dieci, venti o cinquant’anni. Milano è davvero un luogo soggetto a contaminazioni letterarie, oppure l’immaginario è suscettibile di straripare sui marciapiedi di qualsiasi città? 

Tutte e due le cose, secondo me. C’è tutto un immaginario legato alle metropoli contemporanee che di certo non ho inventato io, ma che è il prodotto più ovvio di contesti abitativi di questo tipo, dove la pluralità infinita accresce le contraddizioni, le magnifica, e ne fa la sua bandiera. Le contraddizioni però producono conflitti sociali che non si risolvono facilmente. Di Milano mi irrita l’intolleranza esibita anche dalle fasce sociali più povere, ma mi mirrita anche l’ostentata comprensione di certi uomini d’arte o di cultura che – partendo da una dichiarata fede di sinistra – portano scope nelle case occupate per aiutare gli occupanti a fare un po’ di pulizia. Di Milano mi piace il tanto/troppo/tutto mai composto, l’anima efficiente che affoga nello sporco dei giardinetti, persino l’insignificante baldanza di certi vigili che non vedono le macchine parcheggiate sugli scivoli ma che più volte hanno tentato di multarmi perchè andavo in bicicletta sui marciapiedi.

Sul confronto con Scerbanenco, sono onorata. Davvero onorata. Non credo di meritarlo, ma mi onora.

In “Eva” la trasfigurazione topografica della città - con i suoi edifici ridotti a ruderi, il Palazzo Reale che diventa proprietà privata di un gangster serbo e San Vittore che è una specie di ostello metropolitano (quasi a sottolineare come tutta la città sia diventata un grande carcere) - sembra investire anche gli eventi che vi hanno luogo: mi riferisco all’episodio dell’omicidio-installazione all’interno del PAC (Padiglione di Arte Contemporanea), dove l’Assassino - ovvero, l’Artista - dispone con squisito senso estetico gli ottantasette pezzi in cui ha suddiviso la sua vittima.

Subito mi è venuta in mente una mostra - molto bella - che il PAC ha realmente ospitato qualche anno fa, nel 1999: era intitolata “Rosso Vivo: mutazione, trasfigurazione e sangue nell’arte contemporanea” e presentava opere di Sterlac, Orlan, Serrano e altri artisti body-art. E’ un riferimento intenzionale

Non del tutto. E’ sempre strana, per me, questa faccenda delle citazioni. La mostra cui ti riferisci la ricordo. E il lavoro di Orlan, Stelarc e Serrano fa parte della mia "altra vita": quella accademica, di ricerca e di lavoro scientifico. Voglio dire, non ho ragionato la cosa, ma a livello insonsapevole, di sicuro la traccia c’è. Le due vite non si possono tener separate. Una finisce nell’altra, ed è un flusso costante.

Parliamo di mutazioni: abbiamo citato Orlan, la quale afferma di avere - attraverso la manipolazione chirurgica del proprio corpo - rovesciato il principio del Verbo che si fa Corpo in quello del Corpo che diventa Verbo. Le pratiche di modificazione permanente del corpo (dalla chirurgia estetica alle protesi, passando per tatuaggi, piercing, scaring, impianti transdermici, etc.) sono sempre più diffuse, soprattutto presso le ultime generazioni.

Anche nelle tue storie i corpi sono spesso modificati: a prescindere dal fatto che si tratta di una prerogativa “di genere”, è per caso una specie di... contromossa (ti dico con le parole quello che dice un corpo che si fa parola)? 

Vedi? Ci siamo di nuovo. Quest’anno, all’università, i due corsi che tengo per i miei studenti hanno a che fare entrambi con la rappresentazione del corpo nella contemporaneità. Insieme a una collega sto organizzando un convegno, per maggio, che verterà esattamente su queste questioni. Da almeno tre anni, quello che leggo e studio tocca queste tematiche. E la convinzione di base è che il modo in cui allestiamo il nostro corpo sia il primo messaggio che trasmettiamo: come si diceva una volta, la nostra superficie visibile, quella su cui scriviamo, alla lettera, la nostra identità. Il codice che usiamo è culturale e linguistico: scientemente scelto – come accade in Orlan, ma anche in Kathy Acker, Angela Carter, Will Self, Palanhiuk e molti altri ancora – per trasmettere ciò che siamo davvero (la nostra identità individuale profonda) o ciò che vogliamo essere (la nostra identità sociale).

Accanto a questo, tuttavia, c’è un altro aspetto, ben più complesso e doloroso: ovvero il modo in cui il nostro corpo è segnato da qualcosa che sfugge al nostro controllo: la deformità congenita, la malattia, la nostra condizione di vita. Nell’ultimo anno, ho lavorato sul corpo malato di AIDS. E lì il discorso si fa diverso, affiora l’ombra della morte, di questo limite non valicabile. Peter Brooke, prima di Orlan, scrive che il corpo è un costrutto culturale e linguistico; ma la fine del corpo nella morte è qualcosa di diverso: è preculturale e prelinguistica. E non è un costrutto: semplicemente e tragicamente, un limite. 

Ho l’impressione che questo particolare momento storico sia caratterizzato da una specie di corto circuito fra il discorso mitico (quello che pertiene alle storie) e discorso scientifico: l’ubiquità esiste, si chiama realtà virtuale e viene normalmente praticata da milioni di persone; le metamorfosi, come abbiamo detto, sono all’ordine del giorno, e per quando riguarda l’immortalità, viviamo - parafrasando W. Benjamin - nell’epoca della riproducibilità tecnica di quelle particolari opere d’arte che sono gli esseri umani. La scienza non si limita più a interpretare il mito: lo replica. In questo contesto, che ruolo gioca la fantascienza, intesa invece come mito che interpreta la scienza?

Un ruolo complicato e da rivedere, temo. In verità, credo che i percorsi di convergenza tra discorso mitico e discorso scientifico siano piuttosto antichi. Darwin ha portato allo scoperto la questione, introdotto una frattura epistemologica, irreparabilmente scardinato il nostro profilo di organismi creati perfetti e consegnato il nostro primato sugli organismi alla capacità di sviluppare una civiltà. Che però – la capacità, intendo – parrebbe di fatto accidentale. Di qui, si è andati avanti, e parecchio. E ci si trova oggi in un contesto in cui la tecnologia produce di fatto un allentamento del concetto di realtà, la fine della solida presa che prima abbiamo sempre avuto sull’universo percettivo come autoevidente: c’è perchè possiamo toccarlo. Ora, tutto questo – orribilmente semplificato nel mio breve discorso – è materia di oggi, e materia che solo ieri era oggetto di estrapolazione fantascientifica. Se a questo aggiungi che non ho gran simpatia per le etichette e che le considero definizioni di comodo che van bene finchè aiutano e van liquidate quando non servono più, be’,direi che ne viene fuori un’opinione di questo tipo: i confini tra scienza e mito sono, oggi, di una permeabilità assoluta. La stupefazione tecnologica che faceva parte della fs di un tempo ha difficilmente ragion d’essere ora. Quel che si scrive, alla fine, è una bella storia, o una storia che non regge. E la speculazione scientifica – o sociologica, che mi interessa di più – è parte di questa storia come possono esserlo tanti altri fattori. 

La dimensione etica è importante nei tuoi romanzi e racconti, e spesso prende la forma di esplicita denuncia, soprattutto in riferimento ai conflitti e, più in generale, a tutte le forme di sfruttamento uomo su uomo. E’ un atteggiamento che condivido pienamente, sia sul piano personale che sociale. In letteratura, però, si dice che l’autore deve identificarsi con tutti i personaggi che attraversano la sua storia. Non temi che, sul piano “estetico”, questa impostazione possa andare a discapito di un’efficace illustrazione del male (il più inquietante dei quali proviene sempre dall’interno)?

Questo è un equilibrio difficile, per me. La tensione etica mi appartiene. Ed è anche un dato scelto razionalmente. Credo che la scrittura sia un dono. Se lo si possiede, in misura più o meno rilevante, non si può sprecarlo. Occorre farne qualcosa di utile, significativo. Occorre, come dico spesso alle mie figlie, aver voglia di cambiare il mondo e provarci. Però... però si rischia la maledizione del predicatore. L’enfasi da pulpito nuoce senz’altro al risultato estetico. Credo che su questo dovrei lavorare di più.

Un’altra domanda di carattere “formale”... La tua scrittura è straordinariamente levigata ed incisiva, due qualità che si sono affinate nel corso del tempo fino ad ottenere la sottile precisione di “Eva” (frasi come equazioni) e il virtuosismo stilistico di “Le sorelle sciacallo”. Riscrivi i testi molte volte per raggiungere questi risultati? 

No. Mai. E’ il mio principale difetto, il motivo per cui non mi ritengo professionale. Le sorelle sciacallo in particolare – forse il mio romanzo più amato – è stato scritto in tre settimane e si è chiuso da se, senza possibilità di revisione. E’ un peccato che io non ne sia (ancora) capace. Di rivedere quel che scrivo, cioè. 

In “Visto dal cielo” scrivi:

“[...] il kamikaze è qualcosa con cui la cultura occidentale - costruita sull’istituto di sopravvivenza - non riesce a misurarsi. Dunque è sommamente spiazzante, e questa è la chiave del suo successo.” 

Per associazione d’idee, mi viene in mente “Gravity’s rainbow” di T. Pynchon, dove l’arma finale è un uomo dentro a un razzo, come a dire che l’eredità più fatale della II Guerra Mondiale - quella che avrebbe per davvero cambiato tutto - non è la bomba atomica ma il pilota kamikaze. Non ha caso, questi due “concetti” - l’atomica e il kamikaze - sono primari anche in un altro acuto interprete della nostra contemporaneità: J.Ballard. Le visioni che ci rimandano questi due scrittori lasciano poco margine all’ottimismo. Sul piano letterario, e su quello pragmatico, credi sia possibile disinnescare i dispositivi di auto-distruzione che ci portiamo dentro come parte della dotazione di base?

Certo che sì. E’ il motivo primario per cui si scrive. Almeno per me. Disinnescare la bomba che tutti ci portiamo dentro.

E provare a disinnescare quella degli altri. La scrittura è un’arena nella quale si consumano conflitti che poi si possono evitare nel quotidiano, dove sarebbero molto più pericolosi. E’ lì, direi esattamente lì, che si colloca per me l’origine della scrittura. Anche prima di esser pubblicata, questo facevo: disinnescare la rabbia e trasformarla in parole.

Il tuo romanzo più recente - “Visto dal cielo” - ma anche i suoi antecedenti - “La fidanzata di Zorro” e “Cuore meticcio” - mi fanno venire in mente un altro scrittore-insegnante: D.Pennac. Il quartiere Pasteur, sul “fiume” di viale Monza, sembra il corrispettivo milanese di Belleville. Che rapporto hai con questo autore?

Ho amato moltissimo i primi romanzi di Pennac, meno quelli recenti. Molti lettori, con affetto o con ironia, han preso in giro questa caratteristica della mia Pasteur. Non so quanto di Pennac ci sia davvero nella mia scrittura. Di certo, il processo creativo di Pasteur è simile a quello che ha generato la Belleville letteraria. E di certo c’è una lettura mia di un posto che io conosco, e del quale Pennac nulla sa, come io nulla so della vera Belleville.

Cosa stai facendo, e che cosa stai per fare?

Vivo, come tutti. E questa vita entra nelle storie. Ce n’è una appena iniziata, ma è troppo presto per dire. E un’altra che uscirà a marzo con Salani. Insomma, perchè fermarsi? La vita mica si ferma. Mai, fino in fondo.

 

Allora aspettiamo le nuove storie!

Nel frattempo, grazie della tua disponibilità e attenzione.