Nulla è più affascinante del punto di partenza, l’idea che fa scattare la molla della suggestione adatta a elaborare nuovi disegni e nuovi percorsi. L’acclamato esordio alla regia di Quentin Tarantino, quel Reservoir Dogs targato 1992 che ha lasciato un marchio indelebile nell’immaginario collettivo dello spettatore e della spettatrice medi in Occidente, trova le sue radici retroattive in una sequenza memorabile incapsulata in un capolavoro della New Wave hongkonghese, City on Fire di Ringo Lam, girato nel 1987. La celebre scena in cui, nella parte finale del film di Lam, tre personaggi puntano ciascuno la pistola a qualcun altro, formando un reticolato di spari potenziali e incrociati fra apparenza e verità, amicizia e tradimento, lealtà e denaro, deve essere entrata di prepotenza nella fantasia del giovane Tarantino, allora agli esordi ed evidentemente deciso ad imprimere il proprio tracciato personale disseminato di citazionismo postmoderno nel sentiero del cinema. Per farlo, Tarantino parte dalla fine, scegliendo come punto di partenza ciò che in Lam costituiva una parte marginale della trama - un gruppo di ladri fra cui si nasconde un infiltrato rimangono feriti e a colpo compiuto si accusano a vicenda di tradimento, minacciandosi di morte di continuo, fino al tragico e inevitabile finale - costruendo un’opera del tutto diversa, anche se proveniente da suggestioni orientali. Critici autorevoli hanno parlato di saccheggio, riservando parole molto dure nei confronti di Tarantino e del suo plagio non dichiarato: c’è chi per esempio definisce Le Iene come “il remake, spesso di imbarazzante letteralità, della seconda parte del film” (Alberto Pezzotta-Tutto il Cinema di Hong Kong. Stili, caratteri, autori. Baldini e Castoldi, 1999), mentre altri lamentano il fatto deplorevole che il film di Lam “debba continuare a vivere esclusivamente nel cono d’ombra proiettato dalla personalità ingombrante dell’ex enfant prodige del cinema americano” (Giona Nazzaro, Andrea Tagliacozzo-Il Cinema di Hong Kong. Spade, kung fu, pistole, fantasmi, Le Mani, 1997). Che Tarantino “abbia preso in prestito” una scena fondamentale di City on Fire appropriandosene indisturbato è fuori di ogni dubbio, come è palese il suo chiaro riferimento agli elementi della trama già citati sopra; paragonare i due film solo in termini di presunto passaggio di sequenze da un’opera all’altra significherebbe però ridurre l’originalità contenuta nel film di Lam, oltreché rimuovere le indubbie diversità di Reservoir Dogs rispetto al suo modello ispiratore. Lascio quindi da parte ogni questione sulla querelle per procedere nella mia analisi.
City on Fire si apre sulle strade affollate di uno dei tanti mercatini notturni che pullulano a Hong Kong, qui città invasa dal fuoco e dalla violenza del crimine. Un poliziotto infiltrato, Wah, viene scoperto e accoltellato da una banda con cui lavorava. Il giovane e scapestrato Ko Chow (Chow Yun-Fat) nipote dell’ispettore Lau e spesso utilizzato come agente sotto copertura, viene incaricato dallo zio di sostituire Wah. Con la ferita ancora fresca della morte dell’amico Shing, membro dell’ultima banda criminale di cui Ko Chow ha fatto parte, il ragazzo accetta a malincuore il nuovo lavoro offertogli dallo zio, non privo dei suoi rischi. In una posizione al limite della legalità, con continuo smercio illegale di armi, costante minaccia di essere scoperto dai futuri compagni di banda nonché con il fiato della morte ben attaccato al collo, Ko Chow si ritrova suo malgrado in uno slittamento continuo fra realtà e finzione, in una terra di nessuno dove il confine fra identità diverse e fra loro sovrapposte s’incrinerà spesso, arrivando a mettere in dubbio l’appartenenza del protagonista ad un mondo rispetto all’altro. Non solo infatti il giovane luogotenente John, rivale di Lau e capo di una squadra speciale destinata alla risoluzione del caso con annesso l’arresto della pericolosa banda in circolazione, mette alcuni dei suoi uomini alle calcagna di Ko Chow, sospettato di possesso e traffico illegale di armi e per questo probabile ospite di una prigione. Ciò che rende l’ambigua posizione di Ko Chow molto più complessa del previsto sarà la nuova, inevitabile amicizia che il ragazzo intreccerà con uno dei cervelli della banda, Fu (Danny Lee). Il legame fra i due, fatto di crescente stima reciproca e di piccole frasi scambiate prima del grande colpo nella casa in cui sono costretti a stare dal capo per non far trapelare possibili notizie delle loro mosse all’esterno, è sicuramente l’aspetto più interessante del film e della sceneggiatura (di cui è autore lo stesso Lam), capace com’è di scandagliare la psicologia dei due personaggi, uniti anche oltre la resa dei conti, quando, circondati dalla polizia e presi fra due fuochi opposti - fedeltà alla banda o fedeltà all’amicizia - sceglieranno la seconda, trovando la verità che costerà la vita a Ko Chow e donerà il carcere a Fu, incapace sia di uccidere l’amico nonostante il suo tradimento, sia di tentare una folle quanto impossibile fuga. Costruendo un dramma fatto molto più di tensione e di rapporti umani aggrovigliati sulla contraddizione e sulla paradossale onestà della figura del bandito, piuttosto che sulla semplice violenza, City on Fire è un film irrimediabilmente e visceralmente hongkonghese, pienamente radicato nel pulsare di una città fatta di confusione, sporcizia, mercatini che riempiono tutto lo spazio possibile, luci al neon ossessive e scritte onnipresenti, Gloucester Road e Wan Chai che s’intravedono all’inizio del film come la torre di Tsim Sha Tsui, vicino al Marriage Registry dove si sposano le giovani coppie e dove Ko Chow perderà la sua donna, che lo lascia per andare alle Hawai. Un film dove la corsa affannosa di Ko Chow lungo Nathan Road, centro nevralgico di Kowloon e insieme del volto turistico dell’isola, ci riporta all’idea del fuoco come combustione continua, esplosione destinata a perire e insieme ennesima facciata della sparizione, vero leitmotiv di una certa rappresentazione filmica e artistica di Hong Kong, un correre che è anche un rallentare dietro lo specchio dei palazzi e dei grattacieli che svettano dalle strade.
In tutto questo, il personale “tributo” di Tarantino a un universo da lui certamente ammirato, ma lontano anni luce dalla sua estetica della violenza fine a se stessa, produce un’opera che stravolge completamente i presupposti e le verità insite nella trama di Lam, poiché ovviamente non si può clonare qualcosa che non appartiene alla propria cultura. Reservoir Dogs è un film autenticamente americano, in cui la singola scena ispiratrice - l’incrocio delle pistole in cerca del possibile traditore da difendere o da colpire - viene isolata dal suo contesto originario e svuotata di senso, giocando tutto su due nodi fondamentali, l’uso del flashback e la musica, che vanno a formare l’intelaiatura dell’opera, strutturata attorno all’idea della rapina e solo apparentemente sul tradimento, che in Lam aveva invece un ruolo preponderante e di cui la famosa scena delle pistole era summa e sineddoche insieme, principio e conclusione ideale. A cominciare dall’apertura del film, tesa a focalizzare l’attenzione sulle differenze fra i personaggi - soprattutto fra il cinico e venale Pink (Steve Buscemi), e il ben più umano White (Harvey Keitel), che sono poi i due poli opposti su cui gran parte della trama è organizzata - per poi procedere con gli scambi di battute dal ritmo isterico e paranoico all’interno del nascondiglio, fino alla tragedia finale che vede, come in City on Fire, i banditi perdere tutto, nel caso di White anche l’amicizia (ma con la differenza sostanziale che in Tarantino un vincitore rimane alla fine, mentre in Lam il crimine non paga in assoluto per nessuno) - tutto in Reservoir Dogs è una continua messa in scena della Rapina, atto teatrale per eccellenza in cui il gioco delle parti, evidenziato dal travestimento in smocking e dall’utilizzo di nomi in codice, raggiunge il punto più alto di rappresentazione, anche se continuamente spostato o rivissuto fuori scena attraverso le parole e i ricordi. A ben vedere, ciò che rende efficace Reservoir Dogs e lo ha a ragione reso famoso non sono i contenuti - peraltro in parte ispirati ad un altro film, come abbiamo visto, o risultanti in una strana e nonsense commistione di demenziale e suo malgrado comica visualizzazione della violenza - quanto la forma. Ciò che affascina nell’opera prima di Tarantino è la fredda geometria delle personalità messe a confronto, svuotate di un vero perché, celato dietro i nomi-simbolo, semplici maschere del vuoto di senso abilmente imbellettate con accattivanti motivi anni ’70, altro motore portante del cinema dell’autore americano, intriso più di ogni altra cosa di blackxploitation e sottogeneri nostrani e non, dal kung fu ibrido di Bruce Lee ai Superfly machi e spietati dell’orgoglio afroamericano. Cinema teatrale nei fatti più che nello spirito, Reservoir Dogs riduce i personaggi a marionette manovrate dall’insensatezza della violenza, delineando un universo dove nessun sentimento né motivo può avere la meglio sul resto, a cominciare dall’amicizia (peraltro anch’essa inspiegabile perché non giustificata da alcun legame vero) fra Orange (Tim Roth) e White, gli unici che tentano, anche se timidamente, di uscire dallo schema di marionette preteso dal disegno superiore, la Rapina, suprema idea concepita come fine ultimo dell’esistenza, altrimenti corredata da parolacce casuali e vite senza scopo. Un’amicizia peraltro molto più esplicitata nella fisicità dei corpi, quasi fraterni, che nelle parole, quasi che l’involucro-smocking possa fare da filtro verso una possibile visione diversa delle cose, al fuori dello schema stabilito. Salvo poi richiudersi a cerchio nella morsa infernale della Rapina a conti fatti, con l’arancio del traditore ormai tramutatosi in rosso sangue che è morte e insieme tradimento che non lascia traccia dietro di sé, portando nell’oltretomba anche il candore, in fondo fuori luogo fin dall’inizio, di White.
Da segnalare in ultimo, una gustosa parodia del film di Tarantino che gli allora Bronkovitz fecero nel loro programma Hollywood Party, in cui viene presa di mira proprio la celebre scena delle pistole, ridicolizzata da Crozza, Dighero, Cesena e Pirovano, con la partecipazione speciale di Claudio Amendola. Per chi ha voglia di divertirsi, potete trovarla a quest’indirizzo:
Per chi invece abbia voglia di conoscere meglio il film di Ringo Lam, la ricerca è piuttosto ardua; esistono attualmente in commercio una versione in DVD zona 1 e zona 3 mentre si può trovare una versione cinese in VCD priva di sottotitoli al seguente indirizzo:
Tentar non nuoce: dando un'occhiata ogni tanto magari in futuro salterà fuori un'edizione DVD zona 2.
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