Voglio ancora parlare di radio. Sia perché è un mezzo che amo molto sia perché spero che a forza di parlarne qualcosa di nuovo accadrà. Qualcosa di nuovo ma anche di antico perché si tratterebbe in fondo di tornare indietro per andare avanti: sarebbe un grande successo riportare in radio racconti e romanzi della letteratura del mistero, gialli, horror, fantascienza. Un successo non solo perché ci sarebbe un pubblico di fan entusiasti del genere ad accogliere questo nuovo rifiorire ma soprattutto si adempirebbe quello che dovrebbe essere un compito nostro: creare nuovo pubblico, soprattutto fra i giovani. E per essere pignoli, questo dovrebbe essere un dovere preciso da parte di un servizio pubblico come ancora è la RAI, anche se lo dimentica spesso.
Quando ho letto il pezzo di Mario Tirino in memoria di Horace McCoy a cinquanta anni dalla sua morte, ho sentito riaffiorare nella mia memoria un episodio che riguarda il grande scrittore americano e la mia attività di sceneggiatore e regista radiofonico. Io ho sempre avuto la passione per McCoy iniziata ovviamente con la scoperta travolgente di un capolavoro come Non si uccidono così anche i cavalli? ma poi puntai la mia attenzione sull’altro breve romanzo - pubblicato nello stesso volume della mitica collana Libri del Pavone della Mondatori, sotto l’unificante e inventata egida di un titolo illusorio come Le luci di Hollywood - che s’intitolava Avrei dovuto restare a casa. Storia di ragazzi arrivati a Hollywood attirati dal cinema come un dio Moloch che poi finisce sempre col divorare i suoi adoratori. Proposi alla radio - siamo nel 1968 e all’epoca aveva molto ascolto il romanzo sceneggiato del mattino, basato prevalentemente sugli adattamenti da romanzi classici ottocenteschi - di scrivere dieci o quindici puntate (i ricordi non sono precisi a tale proposito) tratte da Avrei dovuto restare a casa. Loro accettarono ma con una riserva: avrei dovuto scrivere le prime due puntate di prova e poi avrebbero deciso. Allora era una prassi normale, anche se non applicata sempre, e comunque a me veniva proposta per la prima volta. Io accettai: ero giovane e avevo voglia non solo di lavorare ma di diffondere il verbo. Forse vi sembrerà esagerato ma parlare di gialli allora negli ambienti della RAI – c’era il monopolio, ricordatevelo - era quasi come bestemmiare in chiesa. La cultura era altro e proporre nomi come Chandler, Hammett (ho inseguito per anni il sogno di fare in cinema il suo Red Harvest, allora tradotto in italiano come Piombo e sangue e coinvolsi anche Sergio Leone come produttore, purtroppo senza esiti positivi), McCoy era un atto quasi rivoluzionario. Se poi si osava proporre gialli di ambientazione italiana si veniva espulsi a cannonate dai palazzi di Via del Babbuino: allora erano lì gli uffici della direzione, dove adesso c’ è l’hotel Russia.
Alla fine qualcosa si otteneva: come ho scritto l’altra volta, nella prima puntata di questo mio lungo viaggio in un mondo che spero non sia soltanto mio, scrissi e diressi una lunga versione da Il lungo addio di Chandler e anche quello splendido racconto Aspetterò, di cui parlerò per un altro motivo, purtroppo triste, alla fine di questo intervento. Quindi tentai di nuovo con Horace McCoy e accettai anche la prova delle prime puntate pur di mandarlo in onda nelle ore mattutine, quelle di massimo ascolto. Mi misi a scriverle e non credo di aver fatto un brutto lavoro: il risultato però fu disastroso, le prime due puntate furono ritenute non idonee e il seguito non ci fu mai. Horace McCoy non è stato mai sceneggiato per la radio né da me né da altri e un successivo mio tentativo con Il sudario non ha tasche – giallo stupendo purtroppo misconosciuto, anche se ne fu fatta una versione cinematografica in Francia diretta da Jean Pierre Mocky - non ebbe neanche l’onore della prova: la proposta fu respinta e basta. A cinquanta anni dalla morte di Horace McCoy spero che qualche dirigente radiofonico senta un senso di colpa per il fatto che mai agli spettatori italiani è stata data possibilità di sentire una sola parola tratta dalle pagine magiche di uno scrittore che io considero quasi alla stregua dei due miti, Hammett e Chandler. Mentre sto scrivendo questo pezzo ho preso la cassetta del film che nel 1969 Sidney Pollack ha tratto da Non si uccidono così anche i cavalli? con Jane Fonda e Gig Young (splendido attore che vinse l’Oscar per il miglior attore non protagonista e che pose fine in modo tragico alla sua vita) e ho passato due ore favolose nel rivederlo per l’ennesima volta. Mi è nato un grande rimpianto perché ho pensato subito che Avrei dovuto restare a casa ha la stessa forza, la stessa disperata angoscia dell’altro: McCoy resta un maestro nel dipingere il fallimento, il senso impotenza che l’individuo prova nel tentativo di resistere al meccanismo stritolante di un capitalismo che negli anni trenta, durante la grande depressione, ha mostrato la sua faccia più feroce e devastante. I suoi protagonisti sono sempre povere creature - esseri umani al limite della fragilità - che vedono i loro tentativi fallire forse perché si muovono non spinti da desideri reali e radicati nelle loro coscienze ma da falsi sogni, da desideri che hanno l’illusoria parvenza del cinematografo. Che hanno la lucente ed esile forza delle bolle di sapone. Ricordiamo che il grande sogno di Hollywood era che chiunque avrebbe potuto farcela, bastava provare. Il sogno americano, la grande illusione è sempre quella: il successo è in agguato dietro l’angolo e può colpire proprio te. Ma per farlo devi provarci: se non ti decidi a svoltare l’angolo non saprai mai cosa ti sta aspettando. E non fa niente che spesso dietro l’angolo c’è un abisso profondo e senza fine, nero e vorticoso - come sapeva definirlo il mio amato Edgar Allan Poe – nel quale non si può fare altro che precipitare fino a morire. Horace McCoy e James Elroy – ricordate L.A. Confidential? – ci fanno vivere in modo bruciante il senso della sconfitta, la infinita illusoria ricerca del Santo Graal – successo e denaro - che finisce spesso nella tragedia più squallida. A volte peggiore anche della morte.
Un triste episodio recente mi ha portato alla memoria l’unico racconto di Raymond Chandler che ho sceneggiato e diretto per la radio nel 1970: Aspetterò. In questi giorni è scomparsa Ileana Ghione, un’attrice famosa in televisione in quegli anni e con la quale io lavorai spesso in radio. La prima cosa che facemmo insieme è Il lungo addio e poi la richiamai subito per fare quel piccolo capolavoro che è Aspetterò, dove una ragazza è chiusa in un hotel ad aspettare l’arrivo di qualcuno. A farle compagnia, nelle lunghe ore di attesa, la radio: di lei s’innamora, in modo quasi patetico, il piccolo investigatore grassoccio timido e impacciato dell’albergo che per lei affronta pericoli più grossi di lui, solo per tentare di salvarla. Una piccola storia dove la musica della radio svolge il ruolo da terza protagonista, rifacendo vivere un’epoca, una società che quelli della mia generazione hanno conosciuto e amato proprio attraverso la musica, il cinema e la letteratura. Non vi dico quale emozione quando finalmente negli anni successivi riuscii a fare un viaggio negli USA e arrivai a Hollywood dove un mio film Storia senza parole fu presentato al FILMEX, Los Angeles Film Festival. Non avrei mai immaginato di passeggiare per il Sunset Boulevard e di ritrovarmi come protagonista nella mitica sala dell’associazione dei registi, una saletta da 2000 posti, roba da sala parrocchiale.
Di Ileana Ghione mi piaceva la sua voce aspra e calda insieme, una durezza avvertibile anche nei toni caldi e sensuali, giusta per le donne di Chandler, in fondo prive di vero sex appeal, lontane e astratte come allora mi appariva lei. Dice Chandler in un altro racconto che solo le donne e i gatti sanno essere così.
Quando nel 1972 riuscii a realizzare, per i romanzi del mattino, un originale radiofonico ambientato in Italia dal titolo Tua per sempre Claudia, scritto con Diana Crispo, chiamai Ileana a dare voce e vita a Claudia, la donna del titolo, che appariva poco ma determinava la partenza del meccanismo con la sua improvvisa scomparsa. Che poi, durante le indagini, diventava un fatto ancora più tragico: un delitto. La storia diventava così la ricerca di chi aveva ucciso Claudia ma soprattutto i protagonisti cercavano di capire – anche se ormai era troppo tardi - chi era lei.
In fondo, in ogni mia storia, il vero obiettivo delle ricerche non è tanto la scoperta di una verità poliziesca ma la definizione, la messa a fuoco di alcuni personaggi: nostri compagni di viaggio che spesso non conosciamo, anche se ci hanno vissuto a fianco per anni.
Adesso che Ileana è scomparsa – come capita spesso nella vita, c’eravamo persi di vista negli ultimi anni – mi fa piacere ricordarla a me stesso e a voi, perché è importante non dimenticare mai chi, nel nostro lungo viaggio, ci ha fatto piacevole compagnia. Anche se per un breve periodo.
Altrimenti, come dico sempre, la nostra sarebbe Una vita sprecata.
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