Claudia Salvatori ha inoltre vinto il Premio Tedeschi nel 1985 con il romanzo d’esordio Più tardi da Amelia (Giallo Mondadori n.1901) e il Premio Scerbanenco nel 2001. Sempre per Mondadori, sono usciti Columbus Day (1992) e Mistero a Castel Rundegg (1994), quest’ultimo con lo pseudonimo di Anna Dell’isola.
Ha pubblicato numerosi racconti su riviste e antologie, fra i quali ricordiamo: Serial killer mon amour (M - Rivista del mistero n.1), Nel corpo della dark lady (M - Rivista del mistero n.4), Messe nere a Milano (nell’antologia Città violenta, Edizioni Addictions) e Lettera a un mostro (M – Rivista del mistero n.17/18, in libreria in questi giorni).
Recentemente, sono usciti per Alacràn Edizioni i romanzi Il sorriso di Anthony Perkins – di cui anticipiamo un brano al termine dell’intervista - e La donna senza testa.
Ciao Claudia, come stai? Ho appena terminato di leggere “La donna senza testa”: tutto in una volta, come sempre mi accade con i tuoi romanzi. La tua scrittura è “spumeggiante come una bottiglia di champagne”, un’espressione che qualcuno ha usato in relazione a K. Vonnegut. Mi sono confrontata con altre persone, e tutte riferiscono di essere più volte inopportunamente esplose in sonore ghignate, leggendo i tuoi libri. Come mai non sei ancora stata travolta da un imbarazzante successo commerciale?
Questo non lo so, perché non posso creare da sola un successo commerciale, e del resto non ne comprendo le sottili (o grossolane?) meccaniche. Bisognerebbe chiederlo alla controparte, cioè a chi governa (o viene governato) le macchine editoriali: editor, amministratori delegati, esperti di marketing, una certa zona di pubblico italiano complice. Oppure bisognerebbe chiederlo a Dio, credendoci. Io, che ci credo a intermittenze, penso che Dio mi abbia negato il denaro e il potere per temprarmi. Sarei stata una persona troppo arrogante altrimenti.
La tua produzione letteraria è così vasta e composita che, se sei d’accordo, mi concentrerei sulle due ultime pubblicazioni - “Il sorriso di Anthony Perkins” (2004) e “La donna senza testa” (2005) - uscite entrambe per Alacràn. In riferimento a questi due romanzi, in un Commento - La donna senza testa vent’anni dopo (e dieci anni prima) - scrivi:
“Mi capita qualche volta, dopo aver affrontato la fatica di fornire un prodotto per una linea editoriale, un lavoro rassicurante (non per i lettori, ma per gli editori), di scaldarmi a un punto tale da dover continuare a scrivere: e allora partorisco qualche perverso grumo di materia intestinale che non è rassicurante.”
Confermo che la lettura dei tuoi romanzi è sempre, per quanto mi riguarda, un’esperienza lievemente conturbante. “Il sorriso di Anthony Perkins”, per esempio - un romanzo di formazione che tratta dell’”infanzia, vocazione e prime esperienze di Anthony, futuro serial killer” - raggiunge apici di crudeltà del tutto inconsueti (e complimenti per l’estetica degli omicidi!). Poi, proprio quando sta per diventare intollerabile, si innesca il paradosso e la situazione precipita nel comico e nel surreale. E’ un gioco di equilibrio piuttosto sottile...
Tutta la vita umana, anche quando non ce ne rendiamo conto, in ogni momento, perfino durante il sonno o l’atto più “innocente”, è un equilibrio di questo tipo. Pensa, per esempio, a una tecnica ricorrente dell’horror: oggetti reali, perfino banali, osservati per un tempo prolungato rispetto al normale, fino a destabilizzare e creare angoscia. Se guardassimo le cose a lungo e con attenzione probabilmente le troveremmo intollerabili: è questo che mi interessa. Ho praticato i generi letterari per il turbamento, non per la riconferma dell’ordine; per gli assassini, non per i detective. Non voglio essere sola a turbarmi nel reale, e allora scrivo. Voglio spingere i personaggi e le situazioni all’estremo per non adagiarmi in una coscienza comoda: è il regalo che faccio ai miei lettori.
In “La donna senza testa” narri, in forma di conte morale, le avventure “erotiche e no” di “una donna nata con la testa situata all’interno del corpo ma esteriormente invisibile, perciò assente”. Mi sembra che la chiave paradossale sia una delle tue cifre più peculiari, ma la stessa caratteristica mi rimanda anche ad altre autrici come per esempio Nicoletta Vallorani (“Visto dal cielo”; “Le sorelle sciacallo”) e Angela Carter (“In compagnia dei lupi”; “Notti al circo”). Si tratta di una coincidenza?
Sì, nel senso che seguo un percorso mio, e rare, quasi inesistenti, sono state le occasioni di confrontarmi di persona con altre scrittrici. Forse però le donne sono particolarmente stimolate a capovolgere e corrompere le immagini a causa delle troppe immagini aberranti che vengono proiettate su di loro. Sanno, cioè, che le immagini sono abiti intercambiabili sui corpi, o anche il contrario.
Nel Commento precedentemente citato, prosegui dicendo:
“[...] si tratta solo di una diversa organizzazione dei demoni. Quando scrivo “in libertà” sono forse ancora più prigioniera, perché lavoro alle dipendenze di me stessa, e non posso cullarmi nella leggerezza della socializzazione, della mediazione per raggiungere gli altri. Calata in un narcisismo utile e proficuo, ma tirannico, parlo soltanto per la mia coscienza, per raggiungere qualcosa dentro di me, [...]”
Ritieni che questo “assolutismo”, questa “ricerca degli invarianti” possa spiegare la perfetta tenuta di “La donna senza testa”, un testo che, scritto nel 1985 e pubblicato per la prima volta nel 1989 (Graphos, Genova), sembra essere stato concepito ieri?
Sì, potrebbe essere una (ma non la sola) ragione dell’attualità del testo. Mi piace la tua definizione di “ricerca degli invarianti”. Nel mio lavoro cerco di epurarmi di tutte le possibili variabili contingenti, modaiole, folkloristiche, eccetera, per raggiungere solo quello che un essere umano potrebbe raccontare e sentir raccontare sempre. Una volta lo chiamavano “i valori eterni nell’arte”. Ora non abbiamo più i valori, e nemmeno l’arte; rimane un’eternità disorientata che non sa dove andare. Il mio atteggiamento potrebbe spiegare (questo sì) l’assenza di un successo commerciale. Nell’editoria italiana, mi pare si tenda soprattutto all’impegno politico. Nel mio lavoro c’è una preoccupazione politica, ma si tratta di una politica di relazioni fra esseri umani, non della politica attuale, con i suoi schieramenti e polemiche.
In uno dei passaggi più divertenti e, secondo me, più significativi di “Il sorriso di Anthony Perkins”, descrivi l’incontro del protagonista e del suo alter ego con il sesso in questi termini:
“[...] Fino a una certa epoca, il mondo in cui siamo cresciuti ci è sembrato un film di animazione, e le persone si comportavano come cartoni. Poi, sono cominciati gli stupri: al cinema, in televisione, nelle canzoni, nei libri. Non si sentiva che di stupri, non si vedevano che stupri. Cioè, quando la gente vera ha preso il posto dei cartoni, si è messa a violentare a destra e a sinistra, di sopra e di sotto.
Anthony e io eravamo preoccupati: nessuno ci aveva insegnato a stuprare. Nessun dannato genitore, prete, caposcout o maestra incinta si era mai data la pena di spiegarci come si fa. Non saremmo mai stati all’altezza.”
In qualità di scrittrice, e assumendo che lo stupro costituisca una sorta di “paranoia primaria” del genere femminile - così come la castrazione lo è per quello maschile - come “tratti” i crimini sessuali? Che ruolo giocano nel tuo sistema simbolico, nel tuo immaginario? A tuo parere, ci sono differenze nel modo in cui le autrici e gli autori affrontano questa particolare “zona d’ombra”?
Bellissima domanda. Al di là della provocazione lanciata da Anthony dobbiamo inevitabilmente portare il fardello (termine arcaico) o la ferita dello stupro, della violenza sessuale, sia come individui che come collettività. Una peculiarità del mio immaginario, come individuo biologicamente femmina, è un certo compiacimento e godimento nell’immaginare scene di stupro commesse da uomini su uomini. Non so che cosa significhi, e non so da quale misteriosa e profonda alchimia scaturisca. Potrebbe essere una fantasia da vittima trasferita e assolta, cioè un modo per poterne fruire senza disagio (le scene di stupro uomo su donna mi disgustano). Oppure la scoperta che gli uomini in realtà sono donne, e le donne uomini (come sosteneva una femminista americana ricoverata in manicomio). O ancora contraddizioni e tensioni che si scontrano in me, femmina mutante che si trova a vivere uno stressante cambiamento epocale. Ho descritto una bella scena di stupro fra due uomini in Schiavo e padrona: dev’essere il motivo del mancato successo commerciale di quel libro.
Per quanto riguarda le differenze nel modo di trattare lo stupro, mi sembra che il modo femminile sia più complesso e comprende l’identificazione nelle due parti in gioco, il violentatore e il violentato. Nel caso degli uomini, a parte poche e straordinarie eccezioni, mi sembra che tutto si fermi a una condanna politically correct dello stupro.
“La violenza subita dal partner, marito, fidanzato o padre che sia, e' la prima causa di morte e invalidità' permanente per le donne fra i 16 e 44 anni, ancora prima di cancro, incidenti stradali e guerra.” (ANSA - Roma, 28 ottobre ‘05).
Sulla base di certi dati, si sarebbe tentati di ascrivere (e circoscrivere) questo tipo di comportamenti agli uomini, mentre sappiamo che il ricorso alla violenza costituisce, purtroppo, una prerogativa comune all’intera specie. Secondo te, esistono forme di violenza specificamente femminili, magari meno eclatanti e vistose? Se sì, come si differenziano da quelle maschili?
Sì, esistono. Il narcisismo femminile totalmente acritico e spesso crudele, il mito della maternità, le retoriche amorose, la comunicazione nel rapporto di coppia, il ricatto sentimentale, la furia di possesso mascherata da dolcezza. In una parola, la personalità della vecchia femmina umana che non si interroga e non cambia per far fronte a quello che le viene richiesto, ma “liberata”, furba e arraffona si pone come una divinità da adorare.
In una intervista rilasciata cinque anni fa (M - Rivista del Mistero, anno 1 n.4) nella quale ti viene fatto notare come, nei tuoi romanzi e racconti, tenda a prevalere il punto di vista maschile, affermi:
“Ho fatto questa scelta inizialmente perché volevo evitare la “debolezza” del personaggio femminile. Nella nostra cultura, all’io narrante femminile si attribuiscono contenuti precisi, atteggiamenti e anche pregiudizi. Volevo evitare tutto questo, per avere un io narrante sufficientemente forte e autorevole.”
E, nel Commento precedentemente citato, precisi:
“Assumere un io maschile è un espediente con cui tento di catturare il lettore maschio [...]. Non per mangiarmelo, come una mantide religiosa, ma per costringerlo a essere me.”
Personalmente, trovo profondamente catartica la demistificazione della imàgo femminile che contraddistingue i tuoi romanzi - irresistibile, in questo senso, il racconto Nel corpo della dark lady. Dall’altra parte, si moltiplica il numero degli scrittori (soprattutto noir) che privilegiano un punto di vista femminile (V. per esempio Lucarelli, la cui investigatrice “seriale” è appunto una donna). Credi ancora che il pubblico non sia ricettivo ad una voce femminile “forte” e che sia necessario “mimetizzarla” in un personaggio maschile per fare scattare l’identificazione?
Rispetto all’epoca di quell’intervista ho scritto e sperimentato di più, e sono ancora più pessimista. Premesso che non credo nei sessi, ma solo in un patrimonio culturale controverso di segni e simboli correlati, mi sembra che l’umanità, sulla via della conoscenza e integrazione, non sia arrivata neppure all’età scolare. Scrivendo posso solo arrangiarmi, ricorrere alla finzione per dire la verità, come proponeva jean Genet. So che se mi propongo in un personaggio maschile, uso una chiave che mi apre tutte le porte; ma non rinuncio del tutto alla speranza di trovare la formula giusta per un io femminile che le sfondi. La mia impressione comunque è che il pubblico accetti volentieri i personaggi femminili quando sono proposti, veicolati, dalla mente di uno scrittore, da un io maschile forte.
I tuoi romanzi sono ad alto coefficiente “visivo”: uno se li ricorda come se fossero dei film, e in un caso - “Schiavo e padrona” - questo è successo davvero. Hai mai pensato di inviare una sceneggiatura a Tim Burton? Dopo “La sposa cadavere”, “La donna senza testa” ci starebbe bene, tenendo conto della sensibilità già dimostrata dal regista verso questa tematica…
Quali possibilità reali ha un creativo italiano di raggiungere chi lavora ai livelli di Tim Burton? Non mi riferisco solo al problema di reperirlo fisicamente…
Amo molto Tim Burton: per il modo in cui intreccia orrore e stupore infantile.
… Nelle “Confessioni”, Sant’Agostino afferma che “quattro sono le passioni che agitano l’anima: il desiderio, la gioia, la paura, la tristezza.” (14.22). Si tratta di coppie di opposti (desiderio/paura; gioia/tristezza) e direi che sono passioni comuni sia a noi che agli animali. Ma esiste un altro binomio che, invece, caratterizza unicamente gli esseri umani: il riso e l’orrore (quello di cui parla mister Kurtz in “Cuore di tenebra”, per intenderci). Tu sembri avere una notevole dimestichezza con entrambi: ce ne puoi parlare?
Tim Burton è appunto uno che ne sa qualcosa. Senza l’orrore, o la scoperta dell’orrore (è la stessa cosa) la vita non ha il minimo senso. Senza l’orrore, che è la capacità di guardare in libertà, senza dare nulla per scontato, non sappiamo nulla, non siamo nulla. Ma è da questo tipo di conoscenza libera che nasce una specie di ilarità, il riso come tentativo di recupero ragionato dell’intollerabile. Questo spiega come mai i mistici e gli scrittori di horror sono fra i migliori umoristi.
Cosa accadrà di qui in avanti? Hai un piano?
Un piano no. La natura del nostro lavoro non ci permette di farne, consiste proprio nell’andare senza ormeggi. In primavera uscirà un mio thriller da Hobby & Work, dal titolo Nessuno piange per il diavolo. Ho terminato un romanzo mainstream sulla vita di Hieronymus Bosch. Poi mi piacerebbe scrivere ancora un romanzo sugli anni ’70, e continuare a fare thriller. Thriller come lo intendo io, femminile nell’angoscia e nel piacere dello stupro, maschile nella violenza delle immagini, e pieno di colpi di scena.
E noi continueremo a seguirti con passione.
Grazie infinite, è stato molto istruttivo.
Per concessione dell’Editore, proponiamo un estratto dal primo capitolo del romanzo Il sorriso di Anthony Perkins.
Anthony non è mai riuscito a completare una raccolta di figurine.
Solo una volta c'è andato vicino, vicinissimo: con le città europee. Si trattava di una serie di immagini di piazze, monumenti e luoghi storici: disegni, non foto, brutti disegni di chissà chi.
Ad Anthony non piacevano, ma nello stesso tempo ne era attratto: la loro improbabilità ne faceva luoghi non fotografati, ma interpretati, filtri di un punto di vista soggettivo, quinte di teatro, scenari di un'altra dimensione, copertine di pubblicazioni periodiche, quasi sogni metafisici. Comunque, lui raccoglieva le sue figurine: preciso, diligente, con una specie di metodica obbedienza a non si sa cosa.
Tutte le mattine, andando a scuola, comprava dall'edicolante tre buste contenenti ciascuna quattro figurine, e intascava quelle che gli mancavano; poi, all'ora di ginnastica, o durante la ricreazione, barattava i doppioni. La sua più grande gioia era riuscire a scambiare tutte le doppie e tornare a casa con tre serie da quattro figurine complete. Il suo piacere aumentava perché era convinto di rubare: da quel bravo bambino che era, non gli sembrava che le figurine barattate fossero uguali a quelle regolarmente acquistate e pagate. E rifilare a qualcuno qualcosa che per lui era inservibile gli pareva una truffa.
Di città europea in città europea, di baratto in baratto, dopo ore passate a incollare figurine sull'album la cui carta, deformata dalle sostanze chimiche della colla, si faceva sempre più ondulata e rigida, aveva quasi terminato. Gli mancava Leeds, o Graz, non lo ricordo. E non lo ricorda neppure lui; la frustrazione è stata tale che ha rimosso perfino il nome della figurina mancante. Perciò, è inutile andare a chiederglielo.
Dunque, dov’ero rimasto?
Ah, sì.
Gli mancava un niente per finire, una sola schifosa figurina. Ed era incazzato nero: sembrava che Leeds, o Graz, non esistesse neppure. Nessun maledetto bambino della scuola elementare Cuore di Edmondo de Amicis, neppure io che ero il suo migliore amico, aveva mai posseduto, o avuto per le mani, o soltanto visto, quella dannata figurina; e non si sapeva di nessuno, in altre scuole e quartieri, che l’avesse. Leeds, o Graz, era introvabile.
Ad Anthony pareva impossibile; la faccenda mandava a puttane il calcolo matematico delle probabilità. Infatti, seguite il suo ragionamento: se trenta compagni di scuola acquistano tre buste di figurine ogni giorno per un intero trimestre, per un totale di tremiladuecentoquaranta figurine, perché Leeds o Graz non esce mai? E’ contro ogni logica: se non infilano Leeds o Graz in una di quelle buste, allora le cascate scorrono dal basso verso l’alto.
Per qualche tempo, Anthony ha continuato a cercare la figurina mancante, con rabbiosa ostinazione, lacerando busta dopo busta per trovare soltanto quattro doppioni ormai inservibili come merce di scambio, perdendo sempre più la speranza di trovare Leeds o Graz, sentendosi come uno di quegli sfigati destinati a comprare per tutta la vita biglietti della lotteria e non vincere mai. Poi, le figurine delle città europee sono state ritirate dal commercio.
Così Anthony è rimasto con il suo album gonfio e frusciante, con la copertina lisa e segnata da impronte sudate e le orecchie alle pagine, totalmente inutile, totalmente fasullo in quanto non intero, e con la sua scatola di figurine doppie, triple, quadruple, quintuple, eccetera.
Si è sentito tradito.
Quando, un po' di tempo dopo, ad Anthony è parso vagamente di sentir dire che un bambino abitante in un’altra città, molto lontana, aveva completato la raccolta, non ci ha creduto. Quel mitico bambino, se era umano, non poteva aver trovato Leeds o Graz; al contrario, se l'aveva trovata, non era umano, ma un superuomo niciano, un guerriero delle saghe dei Nibelunghi, un eroe dei fumetti con poteri soprannaturali, qualcosa fra Sigfrido e l'incredibile Hulk: e allora apparteneva anche lui ai regni dell'invisibile, dell'impossibile.
Negli anni successivi, Anthony si sarebbe convinto che Leeds o Graz non è mai stata né disegnata, né inserita nelle buste, che la casa editrice che produceva la figurine aveva omesso volutamente una figurina dalla raccolta.
E questo, non per truffare i bambini, ma per indurli a desiderare e inseguire un elemento mancante, che fosse il Paradiso o l'Inferno, un mondo migliore costruito con due dozzine di utopie o un delizioso incubo horror, Shangri-la o la frontiera del west, l'antica civiltà egizia o il futuro, il paese dei Balocchi, il paese delle Streghe, il Paese dei Campanelli, Wonderland o quello che volete, purché sia qualcosa di più rispetto alle schiaccianti leggi del reale, una interruzione nella serie dei luoghi, un non-luogo vuoto che potete riempire con tutti i luoghi del vostro immaginario.
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