Prendete un pianista, o perlomeno uno che si sente a dispetto del lavoro che fa un pianista. Insomma uno che ha studiato il pianoforte e che a quanto è dato di sapere prometteva bene. Mettetelo davanti a un pianoforte e lasciatelo suonare, magari perché ha incontrato dopo parecchi anni l’agente della madre (pianista anche lei) che gli ha promesso un’audizione.

Solo una cosa: non aspettatevi nessuna trasfigurazione artistica indotta dalla musica, nessun lasciapassare per chissà quale estasi (che magari è roba da film come Shine…) perché non è il caso; piuttosto aspettatevi rabbia e rancore, urla e voglia di spaccare tutto, perché se è vero com’è vero che Tom Tom go è un navigatore da auto che ti porta da un punto qualsiasi a un altro punto qualsiasi, il navigatore del Tom di Jacques Audiard semplicemente non c’è, visto che Tom va dove lo porta l’istinto, istinto che in prima battuta lo spara verso una carriera di agente immobiliare sui generis, molto sui generis (mica fa vedere gli appartamenti, piuttosto mazza da baseball in mano o topi dentro un sacco il suo compito è quello di rendere la vita impossibile a tutti quelli che devono sloggiare più in fretta possibile da qualche appartamento così che altri ci possano entrare…). Poi lo stesso istinto, complice un incontro casuale, lo riporta sulle tracce dell’antico amore, quello per il pianoforte, ed ecco allora Tom prendere lezioni da una giovane insegnante cinese che il francese non sa nemmeno dove sta di casa (ma che almeno non sentiamo parlare doppiata come gli orientali di Crash – Contatto fisico "...amole, non ti preoccupale…").

 

 

L’istinto che regna sovrano in Tom è solo una delle sponde che ornano il perimetro che Jacques Audiard ha costruito attorno al suo personaggio, perimetro che chi vuole può chiamare noir o magari neo-noir. Altra sponda, magari dove rimbalzare come una pallina, sono le donne che non possono mancare: se dell’insegnante di pianoforte si è accennato, ne rimangano altre, di passaggio, prevalentemente prostitute, magari non importanti ma funzionali, certo viste esclusivamente attraverso un punto di vista molto maschile, un po’ bieco, un po’ farabutto, ma tant’è, donne che passano, arraffano l’argent, e spariscono alla velocità della luce, e che quando non arraffano stanno lì a prendersi addosso le corna del marito salvo poi ripagare il fedifrago con la stessa moneta ma almeno con un pizzico di passione in più.

 

 

Altra sponda ancora sono i padri, prima evocati a parole, poi presentati in carne ed ossa, padri che non ne azzeccano una che è una e che alla fine sembrano tanto i figli così che a questi ultimi tocca di fare i padri (mentre le colpe dei padri continuano implacabilmente a ricadere su di loro…).

 

 

Le sponde sono queste e senza il navigatore Tom rimbalza dall’una all’altra non dando mai l’impressione di giungere a un punto di quiete. }Audriard gli conferisce poi un dono prezioso senza il quale il film si affloscerebbe subito ma che grazie al quale tiene appiccicati allo schermo come un direttore della fotografia a un regista: il dono è l’iperbolica fisicità che Audriard sa infondere a ogni immagine, a ogni urlo, a ogni sonata del suo protagonista (grazie alla macchina a mano e a un fenomenale Romain Duris nei panni di Tom). È questa fisicità senza freno a diventare la vera e propria chiave stilistica di questo Tutti i battiti del mio cuore, certo più di quanto la sceneggiatura sia disposta a riconoscergli.

 

 

Il cinema di Audiard, inizia ad essere evidente, è un cinema che fa delle terminazioni fisiche dei sensi la chiave di volta del tutto: la vista in Sulle mie labbra (dove la Devos sordomuta leggeva le labbra altrui…), le sensazioni tattili stavolta, dove toccare con la giusta intensità i tasti bianchi e neri di un pianoforte è cosa tutt’altro che semplice, perché avete mai provato a parlare a bassa voce quando tutto attorno il mondo urla?

Non è semplice; decisamente no.