Lo ammetto: ho sempre avuto una certa inclinazione per la narrativa giapponese. Una attitudine che, nel corso degli anni, mi ha portato a spaziare senza pregiudizi tra generi e autori: dai “classici” come Akutagawa, Tanizaki e Kawabata ai primi, incantevoli e immediati, romanzi di Banana Yoshimoto; dal mondo femminile di fine Ottocento descritto da Fumiko Enchi in Onnazaka, alla sessualità (omo) descritta da Hisao Hiruma o quella (etero) di Yamada Eimi; dall’epopa samuraica dedicata a Miyamoto Musashi da Yoshikawa, a un autore unico come Haruki Murakami, con l’indimenticabile Tokyo blues o le vicende del suo Uomo Pecora; dal tormentato Yukio Mishima a una “semplice” giallista come Masako Togata…
Sono solo alcuni esempi di una produzione letteraria di grande valore e varietà, anche se in qualche modo caratterizzata da alcuni aspetti comuni, sui quali non mi soffermo.
La narrativa del Sol Levante mi ha deluso di rado, mai in modo incisivo. In genere, mi ha quantomeno soddisfatto. Spesso mi ha regalato momenti di lettura intensi, se non addirittura memorabili.
Ultima, in ordine di tempo, di queste opere, è appunto Estranei, di Taichi Yamada, un ottimo romanzo uscito in originale nel 1987, ma tradotto e pubblicato in Italia appena lo scorso settembre, grazie alla Nord, che già ha portato in Italia Koji Suzuki e Kaoru Kurimoto.}
La trama è semplice.
Hideo Harada è un uomo in crisi. Soprattutto: un uomo solo. Di mezza età, fresco di divorzio. Scrive testi per la televisione, con alterne fortune e senza tangibili soddisfazioni.
L’appartamento in cui vive e lavora è sito in un edificio adibito prettamente a uffici, che puntualmente ogni sera si svuota. A parte una stanza al piano sopra al suo.
Hideo ha pochi amici, una ex-moglie con cui è ai ferri corti, un figlio in età universitaria, con il quale il dialogo non è mai stato facile.
Ultimo elemento essenziale: Hideo è rimasto orfano di entrambi i genitori all’età di dodici anni.
Una notte qualcuno bussa alla porta del suo alloggio. E’ l’inquilina del piano di sopra. E’ brilla, infatti si presenta con una bottiglia di champagne mezza vuota. Cerca evidentemente compagnia, magari qualcosa in più. Anche se si tratta di una trentenne di aspetto piacente, l’umore di Hideo (che pure è attratto dalla donna) non è decisamente in linea con l’opportunità. Dichiarandosi troppo occupato, la congeda direttamente sulla porta, in modo freddo.
Qualche tempo dopo, in occasione del proprio compleanno, Hideo decide di andare a visitare Asakusa, il quartiere di Tokyo dove ha passato l’infanzia, sino all’incidente mortale occorso ai suoi genitori.
In un teatrino locale fa un incontro stupefacente: un uomo che assomiglia - nella fisionomia, nelle fattezze, nei modi - a suo padre. Così, come lui lo ricorda.
Hideo viene invitato dall’uomo a casa. Dove ad accoglierli ci sarà una donna per tutto e per tutto simile a sua madre, prima dell’incidente.
Stupito e turbato, incerto tra accettare quella che appare come una bella esperienza spirituale o accantonarla come un frammento di confusione mentale dovuto a stress e solitudine, Hideo fa ritorno al suo appartamento.
Senza riuscire a rispondere ai suoi dubbi, o, piuttosto senza volerlo fare, Hideo si ritrova a tornare, ancora e ancora, a far visita alla coppia.
Nel frattempo, la sua esistenza migliora rapidamente.
La donna che aveva respinto qualche tempo prima, Kei, torna nella sua vita. Questa volta da amante. Kei è una donna segnata, nel corpo e nella mente, da una grave ustione al petto. Aspetto che Hideo sa accettare. La relazione tra i due diventa presto intensa. Si trasforma in sentimento.
Anche sul fronte del lavoro, le cose si mettono al meglio, grazie a un rinnovata creatività e un dinamismo professionale che presto si concretizza in un solido contratto con un produttore televisivo.
Finalmente, Hideo si sente nuovamente sereno, vitale.
Ma non è così che lo vedono i suoi conoscenti, l’amico (che peraltro lui non credeva più tale) e soprattutto la donna che ama. Anche se lo specchio gli riflette un’immagine di forza, di vigore giovanile, agli occhi di tutti lui appare giorno per giorno sempre più smunto, malaticcio. Consumato.
Di fronte alle preoccupazioni di Kei, cede. Le confessa dei suoi incontri con gli spiriti dei genitori. Lei, preoccupata, lo supplica di interrompere queste visite.
A questo punto, Yamada ci condurrà abilmente sino all’epilogo, dimostrandoci come, ancora una volta - nel sovrannaturale come nella realtà - le cose non siano mai come sembrano.
Una ghost-story, dunque. Ma giapponese, quindi lontana per essenza e approccio dalle nostre storie di fantasmi.
All’occhio di qualche occidentale potrebbe risultare irritante una presenza così “naturale” del “sovrannaturale” (concedetemi il gioco di parole) presente nel romanzo. Non bisogna però dimenticare quanto invece tale rapporto con il trascendente sia strettamente legato alla sensibilità, non solo religiosa e filosofica, di molte culture orientali. Ne consegue che il modo percepire il mondo degli spiriti è profondamente differente. E che essi camminino tra noi non è così… sbagliato.
Estranei inquieta, non spaventa. E più che con i suoi fantasmi, lo fa trattando i temi universali dell’Amore e della Morte, e dell’Amicizia certo, che si intrecciano a quello della solitudine. Più precisamente: quel tipo nefasto di solitudine che la vita moderna è così orribilmente capace di catalizzare.
Taichi Yamada ci conduce con naturalezza lungo questa sua novella, toccando le corde dell’emozione. Per farlo, sceglie la via dell’identità tra narratore e personaggio principale. E in questo, a modo suo, si riallaccia alla tradizione del watakushi shōsetsu, il cosidetto “romanzo dell’io” che, a partire dagli anni Venti, ha spesso influenzato la narrativa nipponica.
Non succedono molti fatti, in Estranei, ma sono tutti determinanti, significativi. Stanno incasellati in modo perfetto, come in un giardino zen. Un giardino che vi invito a visitare.
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