Lost Girl (titolo originale: Gerda) di Natal'ja Kudrjašova

recensione di Sacha Rosel

Avvertenze: la seguente recensione contiene spoiler sui contenuti del film

Il lento corto circuito di un esistenza dolente e pacata insieme è il fulcro di Lost Girl, film scritto e diretto da Natal’ja Kudrjašova. La storia si dipana lungo il filo sottile di un’apparente dualità, incarnata dai due nomi indossati dalla protagonista: di giorno è Lera (Anastasya Krasovskaya), studentessa universitaria armata di questionari da far riempire ai cittadini e alle cittadine di quartiere per poter raggiungere i crediti necessari a superare un esame di sociologia; di notte, la ragazza si trasforma in Gerda, ballerina di lap dance più interessata ad alienarsi dentro il vortice continuo di musica e danza che non ad interagire con i clienti o con le colleghe. E, al crocevia delle due identità, aleggia un terzo ruolo in controluce e quasi involontario, quello di angelo custode: grazie a una pazienza silenziosa che la porta ad addossarsi tutti i dolori e le responsabilità delle persone che la circondano, Lera/Gerda sembra avvolgere tutti coloro che incontra sotto le proprie ali invisibili, opponendo alla follia e alla violenza degli eventi e della volontà altrui una propria forma di innocenza avulsa dalla sofferenza umana. Un peso particolare con cui quelle ali sfuocate devono fare i conti assume il compito di badare sia alla madre (Yuliya Marchenko), affetta da sonnambulismo e tendente alla depressione, sia al padre (Darius Gumauskas), anche lui fragile e instabile, che irrompe spesso a casa delle due donne armato di pistola nonostante le abbia abbandonate per costruirsi un’altra famiglia, forse perché incapace di lasciar andare il passato.

Costruito su questo continuo passaggio da una dimensione all’altra volto a lasciar emergere il pulsare sottotraccia dell’empatia attraverso i gesti di Lera/Gerda nel suo interagire con il mondo circostante, il film colpisce innanzitutto per gli scorci di ordinaria disperazione sulla vita di persone comuni nella periferia di un’imprecisata città russa. Benché i personaggi-oggetto delle interviste siano tutti a loro modo memorabili per la disarmante fragilità che rivelano nel tentare di far fronte alle asperità della vita, l’horder circondato dalle grida strepitanti dei gatti rimane particolarmente impresso nella memoria, così come lo sono il padre single e la figlia incollati alla tv in preda alla più completa alienazione di fronte allo sguardo attonito della protagonista, che non giudica mai le persone che vede, cercando solo di capirle e di accoglierle dentro di sé. Altrettanto forti emotivamente sono le sequenze oniriche, che ci lasciano intuire una possibile via di fuga in una realtà parallela, dove Lera/Gerda riesce ad andare quando tutto si spegne e la sua immaginazione è libera di vagare nel sogno: qui, vediamo la ragazza in una foresta sospesa fuori dal tempo in un fluttuare che sembra quasi accadere sott’acqua, a voler rimarcare che in fondo non può esserci una vera alternativa allo squallore se non nella follia (come già accaduto alla madre, al padre, e forse anche all’amico pittore-becchino Oleg, interpretato da Yuri Borisov).

Nell’incedere della storia, progressivamente condotta lungo il filo del rasoio del cercare di stare dentro la propria pelle e accanto a quella degli altri senza farsi né fare del male, emerge l’idea di quanto il sé e l’altro siano in fondo inconoscibili, identità perse e forse perdute per sempre, da cui il titolo internazionale del film, Lost Girl, che non allude banalmente a una vita di prostituzione da fallen woman ma piuttosto al senso perduto del sostare dentro e fuori il proprio dolore mentre si cerca di abbracciare quello altrui per lasciarlo stemperare, evaporare, magari anche cancellarsi. Attraverso il doppio sguardo di Lera/Gerda, “puro” perché non ancora corrotto da pulsioni estreme come la follia, l’amore, l’odio, il possesso, la violenza o semplicemente la noia, Lost Girl ci mostra un’umanità incapace di gestire le emozioni e l’anello di empatia che le circorda e le sostiene, finendo per perdersi dentro strane dipendenze, fughe immaginarie o situazioni di degrado che non hanno alcuno scopo se non quello di rimanere a galla (per chi ci riesce).

Ciò che però rende il film ulteriomente notevole e significativo, perché carico di un sguardo differente e potenzialmente femminista, è a mio avviso il modo in alcune sequenze-chiave della dimensione notturna di Gerda vengono filmate. Se può all’apparenza sembrare che nelle sequenze di lap dance e di confronto fra le ballerine nel locale la camera di presa indugi a volte troppo sui corpi nudi delle ragazze, è perché la regista (che non a caso è anche sceneggiatrice della storia) intende sottolineare lo stato di degradazione a cui sono ridotte, che le spinge a instaurare una stupida “guerra fra povere”, giovani donne strette nelle maglie dello sfruttamento patriarcale. Nel caso di Gerda, che non partecipa agli scontri continui fra ragazze né interagisce più di tanto con i clienti, la regista sottolinea continuamente lo scollamento totale della protagonista rispetto all’ambiente in cui si ritrova immersa suo malgrado (e di cui, curiosamente, né la madre né l’amico Oleg sembrano avere alcuna consapevolezza, come se l’identità parallela di Lera fosse del tutto invisibile ai loro occhi e il suo doversi sostentare per vivere non fosse mai oggetto delle conversazioni perché visto come una sorta di strano tabù). Lo straniamento di Gerda rispetto alla propria realtà duale (e forse tripla) diventa particolarmente evidente nella sequenza in cui la vediamo danzare fino allo sfinimento per cancellare il dolore e l’insensatezza del vivere, per poi crollare a terra e rifugiarsi ancora una volta nel sogno, simboleggiato dal risollevarsi rigido e sospeso nello spazio, quasi fosse una bambola sollevata da fili immaginari, messi in piedi però dalla propria ostinata volontà di resistere a tutto e non da qualcun altro.

Lo sguardo eccentrico della regista/sceneggiatrice si nota anche in un’altra memorabile sequenza, dove un tentativo di stupro ai danni di una fragile collega viene sventato da Gerda attraverso un’arma tanto insolita quanto ingegnosa: il canto. Trasformandosi per davvero in un angelo custode che protegge l’amica e al contempo se stessa dalla violenza imminente, la protagonista rende entrambe immuni a ogni possibile attacco attraverso la sua voce straniante e infantile, totalmente avulsa dalla situazione in cui gli uomini volgari che la circondano vorrebbero farla sprofondare, assoggettandola al loro volere molesto e criminale. Ancora una volta, l’oscillare fra la realtà e un’alternativa sospesa dentro e oltre la realtà permette a Lera/Gerda e al film stesso di trascendere i confini di un’esistenza (e una narrazione) misera e sempre sull’orlo della tragedia.

A ben vedere, però, Lost Girl non narra solamente la storia di uno slittamento continuo e alienante da una dimensione all’altra, ma lascia anche intravedere uno scorcio di speranza: da questa situazione di apparente instabilità, la regista sembra suggerire, può in realtà dischiudersi il ritrovamento del sé perduto, quell’anima originaria di cui parlava Platone, non a caso citato a inizio film da una docente universitaria: secondo il filosofo greco, l’anima individuale non è altro che un frammento dell’anima mundi e in quanto tale contiene il soffio divino. In quanto vera essenza del sé, di cui il corpo sarebbe solo un involucro, l’anima rappresenta la vera fonte di conoscenza della realtà, a cui si può accedere una volta aver cessato ogni contatto con il corpo. Forse, quella che Lera riesce a vivere nei propri sogni “sott’acqua” è proprio questa dimensione, dove l’anima può vagare senza i vincoli del corpo ed essere finalmente libera si fluttuare. Non è un caso che la madre sia non solo una sonnabula, ma anche una donna che ha sperimentato il distaccamento dell’anima dal corpo. Nella prima scena del film, vediamo infatti la madre di Lera da giovane e alle prese con un dilemma di cui poi parlerà con la figlia in seguito in un raro momento di lucidità (e di grandissima prova attoriale da parte di Yuliya Marchenko): un giorno, all’improvviso, è stata colta dal desiderio di andar via e abbandonare marito e figlia, non semplicemente svanendo in una foresta ma abbandonandosi ad una dimensione dove essere finalmente libera e viva. Anche se all’ultimo momento ha deciso di tornare indietro, la donna sembra essere consapevole di aver lasciato andare la propria essenza: forse, la sua anima è rimasta lì nella foresta, e ciò che è tornato indietro è soltanto un involucro, un guscio privo di sostanza, in altre parole un corpo senza anima. I barbagli di immortalità, completezza e gloria che ha avvertito nel bosco sono rimasti dunque indietro, incagliando frammenti del suo essere più vero fra i rami e le foglie di quel mondo incantato che non l’ha lasciata più andare. Probabilmente, Lera in qualche modo prova la stessa cosa nei suoi sogni: il fatto che anche la madre appaia spesso nel suo sostare in questo bosco dove l’aria sembra fatta d’acqua invisibile ma ben palpabile fra i capelli ondeggianti come alghe di Lera e i suoi occhi spalancati e come immobilizzati dalla folta coltre acquea, rende la loro esperienza comune. Forse è l’essere donne in un mondo maschilista, che le accetta solo in quanto merce, a renderle simili, costrette al degrado o alla follia perché non conoscono alternative se non nel vendersi all’uomo di turno o lasciar scivolar via il senso delle cose in un trascinarsi senza scopo.

A questo continuo vortice senza senso sembra non esserci una soluzione; eppure alla fine, e soltanto alla fine, le ali torneranno a vibrare dietro le spalle di Lera, paradossalmente solo quando sceglie di non preoccuparsi più degli altri: ormai stanca di cercare di proteggere chi non può essere protetto, la ragazza lascerà la pistola in mano al padre e toglierà i chiodi alle finestre che proteggevano la madre da eventuali cadute durante gli episodi di sonnambulismo. Entrambi potrebbero farsi (o fare) del male e morire, ma Lera capisce che la responsabilità delle azioni altrui non può essere sua e che non può accollarsi tutti i problemi del mondo, ma soltanto pensare a risolvere i suoi, o a librarsi al di sopra di tutto leggera, e quindi va via quasi volando, in mezzo agli alberi caduti (forse un segno che il bosco sognante è esploso, o che la realtà non può essere più ricomposta?) con le ali di nuovo visibili, pronte a costruirsi un passaggio di senso e illuminazione nel mondo nonostante le sue storture.

Lost Girl è disponibile per la visione in abbonamento streaming sulla piattaforma Amazon Prime