Concludiamo il trittico del noir nordico con il romanzo che ha consacrato in Italia il quarto moschettiere del poliziesco svedese: dopo Mankell, Marklund e Nesser ha esordito in Italia con un buon successo Leif GW Persson, criminologo sessantenne di Stoccolma, di cui da pochi giorni è già in libreria un secondo giallo.
Tra la nostalgia dell’estate e il gelo dell’inverno è un noir per molti versi intrigante e per molti altri sconcertante.
Innanzi tutto per la mole: pur abituati ai grossi tomi di Henning Mankell, qui ci troviamo di fronte a quasi seicento pagine per di più frastagliatissime, con numerose microsequenze che seguono la quotidiana opera dei poliziotti e degli 007 svedesi. La lettura risulta quindi impegnativa, talvolta faticosa, con il lettore sempre all’inseguimento del personaggio che nel frattempo si è perso nel dedalo di isole letterarie che compongono il libro.
Poi per il genere: il romanzo inizia come un classico poliziesco ma ben presto vira verso la spy story e il romanzo di denuncia alternando abilmente i tre registri senza che nessuno mai abbia la prevalenza.
Per la struttura, quindi, assai curiosa: quella che sembra essere l’indagine principale (la morte di un giornalista americano volato dalla finestra di un residence studentesco apparentemente suicida), viene sospinta lentamente sullo sfondo per far emergere in primo piano la complessa situazione politica e militare della Svezia tra il 1940 e il 1990: quella che partorisce il secondo omicidio, che, in barba alle auree regole di S. S. Van Dine, viene consumato quasi alla fine del libro. Di entrambi il lettore conoscerà il responsabile, ma le forze di polizia e di sicurezza impegnate nelle indagini non approderanno mai alla verità.
E qui arriviamo all’anomalia più grande: il detective.
Lars Martin Johansson, separato con due figli, all’inizio del romanzo è vicecapo della polizia criminale nazionale, poi viene promosso a capo del personale della direzione generale della polizia e infine si mette in aspettativa per ricominciare a studiare all’università. A questa labilità, per così dire, istituzionale, si assomma quella specificamente tecnica: Johansson, indagando a modo suo, riesce a capire che il giornalista americano è stato ucciso ma non scoprirà mai il colpevole; né tanto meno intuirà chi c’è dietro il secondo delitto eccellente che, per non rovinare la sorpresa al lettore, non riveliamo. Per un investigatore che viene definito da tutti, a partir dall’autore stesso seppure in modo ironico, un “vero poliziotto” è un po’ poco. Anche il suo amico Berg, a capo dei servizi di sicurezza, non si trova in una situazione migliore. Paradossalmente solo il “cattivo” della situazione e, naturalmente, il lettore sono a conoscenza delle sottili trame che hanno portato ai due omicidi.
In effetti, leggendo il romanzo e analizzando la figura di Johansson si ha l’impressione di un personaggio non destinato ad una carriera letteraria; anche la sua sconfitta sentimentale finale, causata proprio dal responsabile morale dei due omicidi, lo segnala come un perdente, nonostante gli universali attestati di stima. Eppure, a dar credito all’informato sito www.krimi-couch.de questo è il quarto noir dell’autore e almeno il secondo con Johansson come protagonista.
Il problema quindi, a nostro avviso, è più generale.
L’autore, un apprezzato criminologo in patria non dimentichiamolo, ha deciso di utilizzare il romanzo, frutto peraltro di un meticciato tra generi, per esprimere la sua critica alle forze dell’ordine svedesi, dal semplice poliziotto di quartiere fino ai responsabili dei servizi di sicurezza, e alla politica estera di una nazione apparentemente neutrale ma pronta a flirtare nel tempo coi vicini più potenti e pericolosi (la Germania nazista prima, gli Stati Uniti poi e infine anche con l’agonizzante Unione Sovietica).
In questo quadro nessuno, proprio nessuno si salva: dall’agente di pattuglia con simpatia neonaziste all’ispettore erotomane; dal responsabile della Scientifica umiliato e offeso da una moglie fin troppo allegra ai capi della polizia dediti un po’ troppo ad amanti, sport e alcool; da un alto funzionario dei servizi segreti a cui piacciono rituali sessuali assai arditi agli stessi “buoni” – Johansson e Berg – che in definitiva riescono a capire solo un aspetto della complessa verità.
Ma anche i referenti politici non sono da meno: impegnati in acrobazie sia in politica estera (dove la neutralità è un paravento per schierare il paese dove meglio conviene secondo i tempi) che interna (in cui troppo spesso il confine tra cosa pubblica e interessi privati è assai labile e mutevole).
In sostanza alla fine tutti perdono qualcosa, chi più, chi meno. Anzi, a voler essere rigorosi chi perde di meno sono i criminali responsabili dei due delitti.
Ecco perché stupisce che prima e dopo questo “pezzo unico” – magari non un capolavoro come strilla la quarta di copertina, ma senz’altro un notevole tour de force letterario – ci siano state altre storie in cui il nostro Lars Martin Johansson ha indagato nella melmosa realtà svedese: mutatis mutandis sarebbe stato come se il capitano Bellodi di Sciascia, splendido perdente del nostro poliziesco contemporaneo, non solo avesse continuato la sua carriera letteraria, ma addirittura avessimo scoperto che preesisteva ai malinconici “giorni della civetta".
Voto: 7
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