Future Fiction all’inizio era una collana editoriale all’interno di un’altra casa editrice. Com’è nata l’idea di trasformarla in un progetto autonomo e indipendente?

Il motivo è semplice: avevo troppi titoli da proporre per la pubblicazione, un’intera collana di autrici e di autori da numerosi paesi che l’editrice non sarebbe riuscita a gestire. All’inizio non avevo intenzione di trasformarmi in un editore, volevo essere un editor che cerca e scova libri, ma alla fine ho fatto di necessità virtù, anche grazie all’aiuto di alcune persone che mi hanno sostenuto nella fase più delicata dell’organizzazione del progetto Future Fiction. Di fatto siamo un’associazione culturale di promozione sociale e non ci occupiamo solo di libri ma anche di eventi, divulgazione e formazione, dalle università fino ai centri di ricerca.

Uno dei tratti che caratterizzano maggiormente Future Fiction rispetto ad altre realtà editoriali italiane dedicate a SFF, weird, fantastico, speculative, noir e horror tutti insieme è quello di concentrarsi solo sulla fantascienza, una scelta per molti versi coraggiosa: sei d’accordo, e che cosa secondo te rende una decisione del genere efficace nel tempo?

Banalmente faccio quello che mi piace e pubblico ciò che vorrei leggere. Ho una passione smodata per il futuro, per le innovazioni e le trasformazioni politico-sociali in grado di modificare la vita umana, sia dei singoli individui che dell’intero pianeta… E’ quello di cui scrivo come autore, è quello che pubblico come editore: cambiamenti climatici, innovazione nativa, solarpunk, intelligenza artificiale, biopolitica, nanotecnologie, stampanti 3D, Big Data, biomimesi, sono i temi che credo avranno un peso rilevante nel dare forma al secolo in cui siamo appena entrati e in quelli seguenti. Non seguo mode o trend, cerco semplicemente di fare buoni libri e di portare alle lettrici e ai lettori contenuti interessanti che possano aprire la loro mente su ciò che potrebbe avvenire nei prossimi anni. Essendo un micro editore (anzi nano…) non mi occupo di libri dal punto di vista quantitativo ma soprattutto da quello qualitativo, lascio volentieri i numeri agli altri e mi limito alle idee, se poi vendiamo di più tanto meglio, se invece vendiamo di meno, poco male. Future Fiction ha senso al di là del numero di copie vendute. E’ una sorta di deposito narrativo, messo insieme per arginare il possibile “mono-futuro”, l’idea cioè che il futuro venga raccontato solo un unico punto di vista, quello anglo-americano, da un’unica lingua, l’inglese, da un’unica religione, quella cristiana, da un’unica economia, quella capitalista, riducendo di fatto lo spettro dei possibili futuri a una mero discorso unidirezionale – una specie di globalizzazione a senso unico, dai paesi egemoni verso tutti gli altri – che da almeno 70 anni ha totalmente “colonizzato” l’immaginario mondiale.

Un’altra caratteristica fondamentale di Future Fiction è quella di essere dichiaratamente multiculturale e di avere uno sguardo rivolto al mondo intero e non circoscritto all’Italia, con testi disponibili in più lingue: perché è importante essere multiculturali nel fare cultura ed editoria oggi?

Perché 70 anni di editoria anglo-americana ha marginalizzato la maggior parte delle narrazioni scritte in altre lingue, perché sullo scaffale della fantascienza di qualsiasi libreria del mondo il 50-60% dello spazio disponibile è occupato solo ed esclusivamente da libri scritti da autori bianchi, americani, della middle-class e spesso morti da 40-50 anni. Il flusso costante di anticipi e di royalties pagate dal resto del mondo all’editoria anglo-americana ha generato grandi disparità nella possibilità di scrivere libri, nella possibilità di diventare professionisti nel settore, nell’accesso ai servizi editoriali di qualità (editor, distribuzione, marketing e uffici stampa) con la conseguenza che addirittura in alcuni paesi del nord Europa si legge direttamente in inglese riducendo la narrativa locale a un mero esercizio amatoriale e dilettantistico.

Decolonizzare il futuro significa ricostruire i rapporti culturali tra paesi non-anglofoni, significa non misurare la “diversità” in base agli standard di qualche editor americano o inglese, significa tornare a leggere autori tedeschi, francesi, spagnoli o anche indiani, argentini o cinesi. Ma l’editoria è diventata un settore industriale e come tale intende la globalizzazione in un unico senso, dalla cultura dominante verso tutte le altre, per cui sono solo i piccoli editori a portare avanti una ricerca che in pratica è assente nei cataloghi dei grandi gruppi, più interessati a far quadrare i bilanci che ha far quadrare la cultura.

Avendo all’attivo antologie provenienti da vari angoli del mondo (a volte in versione con testo originale), Future Fiction dà anche un grande spazio al lavoro di traduzione: come vengono scelti i progetti da tradurre o come le équipes di traduttorə?

Non potendo leggere in tutte le lingue, nel corso degli anni ho costruito una squadra di traduttrici e traduttori che fungono da mie antenne. Conoscendo a fondo la nostra linea editoriale, loro sanno bene cosa selezionare, possono consigliarmi con precisione e quindi una volta individuata una storia si passa alla valutazione dei testi e – in seguito a un parere positivo e a un riscontro con l’autrice o con l’autore – alla fase di traduzione. È un lavoro lungo e laborioso ma che alla fine si trasforma in un filtro eccezionale per “setacciare” quanto di meglio viene scritto in giro per il mondo. A oggi, dopo 10 anni di lavoro, Future Fiction è l’unico progetto al mondo che traduce storie di fantascienza da 14 lingue (spagnolo, cinese, arabo, tedesco, francese, portoghese, olandese, russo, inglese, giapponese, rumeno, turco, bengalese e italiano) e 40 paesi diversi. Il network è così esteso ormai che le storie provengono anche da altri editor (indiani, sudamericani, cinesi, etc) oppure da premi di fantascienza del tutto trascurati ma di grande valore come il Grand Prix de L’imaginaire (Francia), il Kurd-Laßwitz (Germania), Ignotus (Spagna), Seiun (Giappone), Galaxy (Cina) e altri…

Future Fiction è però anche un “progetto” più che una semplice casa editrice: vuoi spiegarci cosa vuol dire?

Vuol dire che accanto ai libri, ai fumetti, e agli audiolibri, siamo un piccolo “hub” per la promozione della fantascienza internazionale: abbiamo organizzato due convention FutureCon durante la pandemia per tenere insieme il fandom mondiale, costretto all’isolamento forzato, con circa 50 autori da oltre venti paesi diversi, una SolarizeCon per la promozione del genere solarpunk, e poi tanti altri eventi in giro per il mondo, dal progetto CoFutures dell’università di Oslo finanziato dalla Comunità Europea, a “Chasing Futures” della fondazione Bruno Kessler di Trento, al “Future Fiction Workshop” dell’Università di Scienze e Tecnologie di Chongqing (Cina), fino a seminari di traduzione all’Università per Stranieri di Siena e alle collaborazioni con vari istituti Confucio d’Italia per finire con le decine di panel durante le convention europee e mondiali di fantascienza, da Barcellona a Dortmund, Helsinki, Dublino, Belfast, Rotterdam, Glasgow, Pechino, Chengdu e Lima.

Di fatto facciamo anche formazione, aiutando giovani illustratrici e illustratori della Scuola Internazionale di Comics a muovere i primi passi nel mondo del lavoro, tramite collaborazioni e stage, così come con le traduttrici e i traduttori da lingue diverse dall’inglese che hanno purtroppo meno possibilità di lavorare su lingue “marginalizzate”.

Oltre che editor, sei anche uno scrittore di fama internazionale, vincitore del Premio Urania nel 2008 e co-vincitore nel 2015, del Premio Italia nel 2012, e 3 Premi Europa, con diversi titoli all’attivo anche nel mercato estero, compreso quello cinese. Di recente ti è inoltre stata affidata dalla casa editrice Flame Tree Press la cura di un’antologia internazionale sul solarpunk. Credi che il mercato estero, rispetto a quando hai iniziato a scrivere e poi a curare i progetti per Future Fiction, sia oggi più aperto nei confronti di chi è straniero oppure no?

In teoria, è più aperto se scrivi in inglese, perché quasi nessuno a livello internazionale legge da lingue diverse dall’inglese. Spesso dico che il mercato anglo-americano è un lago che si crede un oceano, perché ha un disperato bisogno di immettere altre voci, ma non si cura di includere i costi di traduzione nei suoi budget con la conseguenza paradossale di avere la pretesa che le storie debbano essere naturalmente scritte in inglese.

Questo ha creato delle storture a volte bizzarre, tanto che è più facile che venga pubblicata un’autrice esordiente americana di una comunità nera, ispanica o della comunità LGBTQ+ che una grandissima autrice tedesca oppure di un veterano della fantascienza cinese o messicana.

Io ho dovuto investire i soldi dei premi che ho vinto nella traduzione dei miei romanzi e solo dopo molti anni, molti viaggi e molto lavoro di relazione sono riuscito a essere pubblicato in Australia, poi negli USA e infine in Cina. Adesso sono un po’ più conosciuto ma certo non tanto quanto un giovane autore americano/inglese che ha alle spalle una grossa agenzia letteraria di Londra o di New York in grado di muovere uffici stampa, social media e influencer. Me ne sono fatto una ragione, la mia ambizione non è essere letto dal maggior numero di persone possibili, e la mia strada ormai passa per vie del tutto diverse, fatte di decine di fiere del libro, centinaia di panel, e migliaia di parole spese direttamente con le persone che mi incontrano in giro per il mondo.

Mi reputo fortunato perché dopo dieci anni di lavoro faccio quello che mi piace, in compagnia delle autrici e degli autori di fantascienza che apprezzo di più come Vandana Singh, Clelia Farris, Ian McDonald, Lavie Tidhar, James Patrick Kelly, Chen Qiufan e Xia Jia.

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Una parte notevole del vostro catalogo, sia solo in italiano che con testo originale, è costituita da testi di autorə cinesi: com’è nata l’idea di offrire al pubblico libri che comprendessero anche l’originale in cinese? Qual è il target di riferimento di queste edizioni? Esiste una collaborazione fra Future Fiction e i dipartimenti di lingue di qualche università italiana?

In realtà l’idea è venuta a Mariangela Mincione, la mia editrice precedente. Io ero scettico su una soluzione in doppia lingua ma poi pensandoci bene, devo ammettere che è stata una scelta vincente. Quel primo libro, “Nebula”, mi ha permesso di andare in Cina (è il primo e unico libro di fantascienza cinese in doppia lingua) alla convention internazionale di Chengdu per parlare di “decolonizzazione del futuro”. Da lì poi sono stato invitato in Cina altre 10 volte e ho avuto l’occasione di conoscere a fondo tutto il panorama fantascientifico nazionale, dagli autori più importanti come Liu Cixin, Han Song, Xia Jia e Chen Qiufan, fino ad esperti come il prof. Wu Yan e Song Mingwei, gli editor delle riviste e delle case editrici, inclusi investitori, studiosi universitari, traduttori, registi e fan.

Non abbiamo un target di riferimento, i nostri libri sono per tutti, dalle lettrici di genere fino ai lettori mainstream, di fatto però siamo diventati abbastanza conosciuti tra le studentesse e gli studenti universitari perché queste antologie di racconti vengono apprezzate proprio per la presenza della lingua originale cinese, tanto che in questi anni ho avuto addirittura l’onore di essere correlatore a tre tesi laurea sulla fantascienza cinese.

Quest’anno Future Fiction ha compiuto 10 anni: quali progetti di questo percorso ritieni ti abbiano dato maggiori soddisfazioni finora?

I progetti che ci hanno portato maggiori soddisfazioni sono soprattutto tre: la promozione della fantascienza cinese a livello internazionale, lo sviluppo del genere del solarpunk proveniente dal Global South, e l’inclusione di futuri del tutto negletti e trascurati dalle grandi case editrici poiché non scritti in lingua inglese (vedi la fantascienza dal Subcontinente Indiano, dall’Africa e dall’America Latina).

Tre libri imprescindibili di Future Fiction che segnaleresti a chi vuole accostarsi alla casa editrice per la prima volta.

L’antologia “Futuri Uniti d’Africa”, l’antologia “Il Sole cinese” e il romanzo “I vegumani” di Clelia Farris.

Pensi che la fantascienza non anglosassone contemporanea meriti più apprezzamenti da parte del pubblico, o vedi un maggiore interesse a conoscere autori e autrici “altrə” rispetto al passato?

La fantascienza non appartiene a nessuna cultura, a nessuna lingua e a nessun ceto sociale, per questo limitarsi a leggerne solo un tipo è un po’ come ascoltare sempre la stessa canzone, mangiare lo stesso piatto e andare in vacanza nello stesso posto.

Alla fine ci si stufa, ma il mercato delle grandi case editrici offre sempre lo stesso tipo di libro per non rischiare, con il risultato di non offrire ai propri lettori il miglior servizio possibile. Al contrario, si cerca il prodotto standardizzato, riproducibile, sequenziale, seriale per spremere fino all’ultima goccia di profitto da una storia che ha venduto bene. Future Fiction va nella direzione opposta e contraria, sforzandosi di pubblicare libri che spaziano per identità, che abbracciano provenienze diverse, punti di vista lontani, immaginari anche complessi da decifrare come quello cinese o indiano, e nel farlo prova a non mettere etichette, a non selezionare in base a “quote” speciali, senza dover includere un categoria creata artificiosamente “tanto per”, bensì cerca la qualità ovunque si trovi e proveniente da qualunque scrittrice o scrittore che abbia una visione compiuta e affascinante del presente e del futuro, indipendentemente dalla sua lingua, nazionalità o estrazione sociale. Credo che l’editore – nella sua accezione più vera – sia un mediatore culturale e in quanto tale abbia il compito di creare ponti e vedere relazioni laddove sembrano più difficili da scorgere. Il pubblico è più maturo di quanto si creda, e vorrebbe leggere altro ma non lo trova nelle librerie di catena. Sui social, ci sono numerose foto di scaffali di fantascienza tristemente popolati da libri tutti uguali, tradotti da una sola lingua, e scritti di autori morti da 40-50 anni.

Ho fondato Future Fiction per colmare questa grave lacuna, un’enorme perdita culturale che si aggrava di anno in anno, e tentare di raccontare ciò che la grande editoria ha purtroppo smesso di fare. Esisteva un tempo in cui ci si poteva leggere tra Italia e Francia, tra Germania e Olanda, tra Spagna e Portogallo, prima che l’inglese diventasse quella lingua egemone capace di marginalizzare ogni altra cultura con la conseguenza drammatica di dover aspettare la traduzione in inglese di un testo importante per vederlo tradotto in altre lingue.

Quali sono i tuoi progetti e le tue ambizioni future, come editore e come scrittore?

Ho appena iniziato a scrivere un nuovo romanzo solarpunk dal titolo “Chimeriade” che spero di finire il prossimo anno. Nel 2025 Future Fiction pubblicherà un’autrice iraniana di fantascienza, Zoha Kazemi, una raccolta di storie di fantascienza dal Brasile, un’altra antologia di genere solarpunk, dal titolo “SolarMarx” e un romanzo di Wang Jinkang, uno dei massimi autori di fantascienza cinese, tradotto da Francesca Bistocchi. Per quanto riguarda i fumetti della collana Futuresque uscirà Livido, tratto da uno dei miei romanzi, adattato da Giovanni Dacò e illustrato da Mattia Simon