Ambientato a Onomichi, nella prefettura Hiroshima, Takano Tofu di Mihara Mitsuhiro narra la storia di una ditta a conduzione familiare, specializzata nella produzione artigianale di tofu e il cui nome dà il titolo al film. Takano Tatsuo (Fuji Tatsuya) è un uomo burbero che divide il proprio tempo fra il tofu e gli amici, che si ritrovano a chiacchierare dal barbiere. Uno dei suoi pensieri più assillanti è quello che trovare un marito alla figlia Haru (Aso Kumiko): certo di fare del bene, l’uomo arriva ad escogitare un piano perfetto per sugellare l’unione della figlia con l’affascinante e colto gestore di un ristorante internazionale, certo che tutto andrà come deve. Ovviamente, nell’analizzare i pro e i contro di un’eventuale unione sentimentale con qualcuno – così come per eventuali migliorie riguardanti il tofu e la ditta di famiglia – Haru dà valore ad aspetti totalmenti diversi da quelli presi in considerazione dal padre, e lo scontro fra loro non tarderà ad arrivare, anche se un po’ di dolcezza non mancherà di bussare alla porta di entrambi.
Forse non particolarmente originale (si tratta in fondo della classica storia del contrasto generazionale, per di più con un personaggio – il burbero Tatsuo – giàmolto noto al pubblico giapponese perché presente in numerose serie televisive, e dunque di sicuro richiamo), a tratti un po’ macchiettistico nel ritrarre i personaggi secondari (come il barbiere e sua moglie) e stantio nel confezionare “battute” (leggi “offese”) maschiliste che francamente non dovrebbero esistere nel ventunesimo secolo, Takano Tofutrova uno dei suoi maggiori punti di forza nei momenti dedicati alla creazione del tofu: benché non si tratti di un documentario, in alcuni momenti la narrazione è come sospesa e ci si sente trasportatə nella magia e nel mistero della creazione artigiana a veder nascere un panetto di tofu grazie alla cura e alla determinazione di mani sapienti. Come per i rapporti più veri con le persone, crearequalcosa richiede una pausa dal caos del mondo e un ascolto attento a ciò che ci attraversa e che ci passa accanto – da qui la necessità di predisporsi all’empatia per riuscire a capire dove finisce il sé e dove comincia l’altro, per rispettare i tempi e gli spazi reciproci della conoscenza. Che si tratti di una pietanza, un’opera d’arte o di un rapporto di amicizia, creare comporta sempre un sostare dentro un respiro più ampio, che cessa di essere un io diventando un noi e, se si è fortunatə, perfino un tutto armonico con l’universo.
Èquesta stessa cura che ritroviamonel personaggio diFumie (Nakamura Kumi), e di conseguenza nel rapporto che Tatsuo a poco a poco instaura con lei: avvolta da un sorriso mite e da una saggia leggerezza, Fumie attraversa la vita con l’eleganza di chi conosce il dolore ma se ne lascia sopraffare, schivandotanto le frivolezze quotidiane quanto la inutili volgarità delle persone che vedono in lei solo l’apparenza – quell’età avanzata che culturamente e socialmente la codifica come donna fragile, desueta, ormai priva di valore e quindi calpestabile sia con le parole che con i fatti (cosa che tanto le colleghe di lavoro quanto la nipote non esitano a fare per cercare di sbarazzarsi di lei). Grazie alla conversazione casuale, che lentamente si trasforma in frequentazione vera e propria, Fumie coltiva verso se stessa il sapore della gentilezza e della sobria dignità della vita, aiutando indirettamente Tatsuo a imparare a fare altrettanto. Credo sia questa la lezione fondamentale da portarci a casa dopo aver visto il film: non tanto l’abbandonarsi agli stilemi già notidel rapporto padre-figlia, o la presenza sdrammatizzante ma scontata degli amici, quanto l’entrare con levità e rispetto nel dialogofra due persone ormai in là negli anni e la cui mente segnata dalla memoria collettiva della tragedia che ha colpito Hiroshima rende ogni giorno un dono e ogni scambio casuale con qualcuno una possibilità inesauribile, una pausadalla frenetica e insensata ansia del fare che caratterizza la nostra vita.
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