Erano gli anni della dolce vita, di Cinecittà, considerata la Hollywood sul Tevere, dei grandi film di Fellini, Antonioni, Visconti, Germi, Rosi, De Sica, gli anni di una Roma, che, al di là della sua grande storia, era diventata il miraggio di tante giovani aspiranti attrici che arrivavano da ogni parte del mondo per cercare fortuna nel cinema. Una di queste aspiranti attrici fu la tedesca Christa Wanninger che si diede da fare per entrare nel giro con la speranza di rimediare una parte, anche piccola, in qualche film e che riuscì soltanto a farsi conoscere come modella. L’ambiente era quello a tinte forti della via Veneto d’allora, dei night-club, dove sesso, alcol e coca erano di casa, così come i giornalisti che scrivevano di spettacolo e cronache mondane, come i paparazzi, come i lenoni che sfruttavano i sogni di tante ragazze, illudendole di avviarle al successo per andarci a letto, spacciando amicizie con chi contava nello spettacolo, nella politica, nel giornalismo.
Il 2 maggio del 1963 Christa Wanninger fu trovata ferita a morte con undici colpi di coltello sul pianerottolo di un palazzo di via Emilia, una traversa di via Veneto, davanti alla porta della sua amica, ballerina di professione, Gerda Hoddapp, che non aveva udito, né conseguentemente visto nulla, nonostante le urla della vittima fossero state udite da molti condomini. Christa morì al suo arrivo in ospedale e Gerda si fece vederesolo al momento dell’arrivo dei poliziotti che, chiamati dai condomini, avevano bussato con forza alla sua porta. Interrogata, raccontò a propria difesa che in quel momento stava dormendo pesantemente, mentre gli altri testimoni parlarono della presenza nel palazzo di un uomo alto e magro, sui trent’anni, vestito di blu, del quale si erano perse le tracce. Gli inquirenti, convinti che la ragazza fosse in qualche modo complicedell’assassino, fu accusata all’inizio di favoreggiamento e portata a Rebibbia allo scopo di convincerla a parlare, ma non venne fuori nulla, tanto da passare ben presto il delitto tra i casi irrisolti. Almeno temporaneamente, perché qualche tempo dopo un uomo telefonò al quotidiano romano dell’epoca,Momento-Sera, dicendo di conoscere l’omicida e di rivelarlo in cambio di cinque milioni di liree un anticipo di cinquecentomila lire. Il cronista che aveva ricevuto la telefonata lasciò intendere che per quella somma doveva parlare con la proprietà del giornale, invitandolo così a richiamare. Naturalmente, furono allertati i carabinieri e quando l’uomo al telefono si rifece vivo, compito del giornalista fu quello di intrattenerlo il più a lungo possibile, così da dare il tempo alle forze dell’ordine di intercettare l’apparecchio dal quale l’uomo stava parlando. Cosa che avvenne. Ad essere arrestato fu un artista, Guido Pierri, che già al telefono aveva dichiarato il proprio fratello, affetto da schizofrenia, colpevole dell’omicidio, ma non venne creduto, giudicato mitomane anche perché non c’era nessun fratello e che si fosse inventato tutto per guadagnare facilmente un po’ di soldi e di notorietà. Arrestato, dopo un paio di mesi venne scagionato. Ma la storia non finisce qui, e sarebbe ora un peccato raccontare quanto accadde dopo, visto che lo scrittore Giancarlo De Cataldo, con un lungo passato di magistrato, ha rivisitato, con la maestria che gli è propria, l’intera storia in un breve, avvincente romanzo dal significativo titolo di “Dolce vita, dolce morte”, edito da Rizzoli.
Nel romanzo tutti i protagonisti hanno altro nome, con Christa che assume il nome di Greta e l’amica Gerda quello di Elizabeth, così come altro nome assumerà Guido Pierri che diventa Albino Sacchi. A raccontare la storia è un giornalista, Marcello Montecchi, una sorta di Ennio Flaiano, ironico e malinconico, venuto dalla provincia nella capitale con l’ambizione di fare lo scrittore ma sbarca il lunario scrivendo commenti sulla vita mondana e gli spettacoli di Roma, specializzato in quei corsivi di taglio basso in prima pagina, chiamati in gergo “fogliettoni”. Marcello per un po’ si è accompagnato a Greta, andandoci a letto, ma nulla di più se non un infatuamentoper lei dovuto alla sua bellezza e al suo carattere indipendente, di chi vuole sentirsi libera nel disporre del proprio corpo, senza legami duraturi con qualcuno. Tant’è che si lasciano, ed è quando non la vede più che accade il fattaccio. Greta viene uccisa come Christa davanti alla porta dell’amica Elizabeth che come Gerda non ha sentito né visto nulla e abbiamo pure l’uomo altro e magro sui trent’anni vestito di blu. De Cataldo, che, insieme ad altri crimini storici, ha tirato fuori il caso dagli archivi giudiziari per una serie in onda su Rai Uno intitolata “Cronache criminali” in undici puntate, ricostruisce così quel delitto che all’epoca fece tanto scalpore per l’errore giudiziario che l’ha accompagnato, lasciando in libertà per alcuni anni l’assassino, che, in questo caso, lasciamo scoprire chi fosse al lettore di “Dolce vita, dolce morte”. Un romanzo avvincente, la cui qualità maggiore – fermi restando gli elementi di suspense tipici del noir – è la scrittura, che in molti tratti del dialogato evoca il romanesco, dandoa questo però una natura di stile, di lingua letteraria e perciò alta, che – come il siciliano per Camilleri – è la cifra ormai tipica di tutti i romanzi di ambientazione romana dello scrittore tarantino ma romano di adozione di De Cataldo, da “Romanzo criminale” in poi, fino al più recente de “La Svedese” e ,ovviamente, questo “Dolce vita, dolce morte” di cui fin qui abbiamo parlato.
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