Wim Wenders e gli iùesei, un rapporto che negli ultimi anni si è andato intensificando non sempre con risultati soddisfacenti sul piano cinematografico. Se nel film precedente a questo, La terra del'abbondanza, la paranoia di uno diventava la paranoia di un’intera nazione, anche stavolta, pur nella differenza del tema, lo sguardo è ad un niente dall’allargarsi (a pensarci bene chi non ha bisogno di un padre?).

Il tema è quello della paternità ignorata con la quale Howard Spence, divo del western in disarmo, si trova a dovere fare i conti, tra l’altro doppi visto che dopo aver appreso dalla propria madre di d’avere un figlio di cui ignorava l’esistenza, a quest’ultimo si aggiungerà anche una figlia con tanto di urna funeraria della madre al seguito, entrambi frutti di scorribande giovanili quando la celebrità pagava in termini di successo sessuale.

 

Il Padre a sua insaputa è Howard Spence (Sam Shepard, sceneggiatore assieme a Wenders come fu per Paris Texas), una sorta di anti-John Wayne che all’inizio fugge a cavallo da un set divenuto troppo stretto dove si sta girando Phantom of desert, cercando, come gli suggerisce il titolo stesso del film, di diventare qualcosa di simile ad un fantasma, liberandosi appena può di speroni, stivali, cavallo.

 

Nelle peregrinazioni di Spence, dal set alla casa materna, da questa alla città dove vive il figlio sconosciuto, viaggi in sostanza dal massimo della finzione (il set), al massimo del realismo (la vita vera), c’è molto, per non dire moltissimo, del cinema di Wenders, un cinema spesso alle prese con personaggi alle prese con movimenti più o meno falsi, più o meno immaginari, un cinema che altrettanto spesso ha saputo regalare immagini di grande forza.

Anche stavolta è così con le rocce a forma di occhi attraverso le quali si scorge il cielo azzurro, o il giocatore di golf, borsa con le mazze sulle spalle, che attraversa la freeway che taglia in due il deserto.

 

Quello di Wenders è un cinema refrattario alle mode, ma anche un cinema che si porta dietro, assieme ai pregi, dei difetti, ad esempio la sensazione che in diversi momenti si fermi a pestare l’acqua nel mortaio, un po’ come un profeta che non riesce più a trovare le parole adatte a descrivere quello che sarà, e anche Non bussare alla mia porta non fa eccezione.

 

Alla fine il film nel film, che è un film western mentre il film che lo contiene non lo è, si farà (un assicuratore interpretato da Tim Roth tampina Spence fino a riportarlo ammanettato sul set) e ne vediamo perfino il finale (Spence in sella che impenna il cavallo contro il cielo) perché il cinema, dentro e fuori, continua nonostante tutto.

 

A dispetto del titolo che ci tiene a mantenere le distanze, il film sembra un invito rivolto magari a tutti quelli che credono che il western sia il genere per antonomasia, quello di "Qui siamo nel West dove se la leggenda diventa realtà vince la leggenda".

A dispetto di tutto… 

Presentato in concorso al 58mo Festival di Cannes.