E’ sempre un piacere leggere un giallo di Domenico Cacopardo per la scioltezza della sua pagina, il gusto di mettere il lettore al corrente di tanti piccoli dettagli, sia di formalità giuridiche che l’autore, uomo di legge, ben conosce, ma anche di luoghi, di locali di buona cucina e di piatti, così come di pruriti sessuali vari, vissuti da amanti in tutte le salse, così come di sensazioni fisiche seguite a una bella nuotata o a una corsa, per altro condito il tutto da modi di dire siciliani, che danno alla narrazione un tocco di leggerezza, nonostante ci si trovi alle prese con uno o più omicidi. Ma, in alcuni casi, forse certi dettagli, certe concessioni narrative, in alcuni momenti, stridono, e molto. Capita nell’ultimo romanzo dello scrittore “Io, Agrò e il generale”, edito come in genere tutti i romanzi di Cacopardo, da Marsilio. Verrò al dunque.
C’è un generale in pensione, Pancrazio Lotale, della Folgore, oggi membro e presidente per la regione Sicilia di un’associazione di ex paracadutisti che si occupa di aiuti civili in caso di necessità. “La nostra efficienza ed efficacia si può misurare con la cosiddetta prova contraria” descrive così il generale il servizio civile dell’associazione “chi, per i motivi più diversi, ha chiesto la cessazione dei rapporti contrattuali instaurati con noi, ha matematicamente avuto da pentirsene a causa di furti e rapine opera della solita, e mai deprecata abbastanza, criminalità organizzata locale”. Nella speranza che “i rapporti contrattuali” di cui parla non sia il “pizzo” (della serie “se paghi non ti succede niente”, ma sicuramente il generale intendeva altro, nel senso che l’attività dell’associazione aveva una funzione preventiva), sta di fatto che nel corso del romanzo l’associazione si troverà in mezzo ad altre beghe legate ad alcune vicende bancarie, legate alla criminalità, che rendono complicata la vita del protagonista, che, a parte la cultura maschilista, è persona in vista a Letojanni, paese natale dello stesso autore. Ma la vita del generale sarà ancora più complicata, direi tragica, dopo che l’amante convivente della figlia, gravemente malato, muore per sospetta eutanasia e subito dopo, alla vigilia del funerale dell’uomo, la figlia sparisce. Può essere per un momento di depressione per la morte dell’amante, che per lei, Dominique, aveva lasciato la famiglia o per i messaggi di quest’ultima che non la voleva presente a funerale, tanto più per essere beneficiaria dell’eredità; ma può essere per il fatto che già in paese si chiacchiera che Dominique negli ultimi tempi se la spassava con un nuovo e più giovane amante, sta di fatto che passano i giorni e della donna non ci sono notizie. Pancrazio Lotale vorrebbe rivolgersi alla polizia, ma giustamente l’avvocato di famiglia, Renato Grosto, consiglia di aspettare per non suscitare falsi allarmi. Nel frattempo, il generale si consola a letto con la sua amante, Giuditta Stretti, diventata tale dopo che la moglie Alfreda lo aveva lasciato per andare a vivere, a sua volta, con il suo amante. L’altro modo che ha per distrarsi sono le lunghe nuotate nel bel mare di Sicilia, anche se ormai l’estate è finita da un bel pezzo. E fin qui siamo abbastanza nella norma, diciamo. Ciò che non torna è quando a Roma, in piazza della Pigna, viene trovato il cadavere straziato e senza testa di una donna, con l’aggravante che il ritrovamento è avvenuto nientemeno che nell’appartamento che il nuovo amante di Dominique, che evidentemente c’era ed è stato interrogato dalla polizia, le ha regalato. E a chi altri, perciò, se non a Dominique, può appartenere quel corpo straziato e irriconoscibile?
Ora la polizia avverte l’avvocato Grosto del ritrovamento e l’avvocato lo fa, giustamente, con molta circospezione, per non far inorridire il suo cliente amico e la moglie separata Alfreda della tragica scoperta, tanto da tacer loro, in un primo momento, della decapitazione e dello strazio delle membra, braccia e gambe, anch’essere tagliate con un colpo di accetta. Informato di ciò, un padre romperebbe ogni indugio, si precipiterebbe a Roma per accertarsi che il cadavere non appartenga alla figlia, togliersi quell’incubo… E invece che fa? Va a nuotare per distrarsi e poi, pure, a farsi una scopata con l’amante. Non solo: anche quando viene a sapere dello scempio portato al cadavere, della decapitazione e della introvabilità della testa della donna, si fa la sua nuotata, la sua bella cenetta non senza poi tornare tra le coltri dell’amante (della quale, tra l’altro, comincia a sospettare di una sua relazione con l’avvocato Renato Grosto).
Ecco, in tutta questa parte, l’insistenza di quei dettagli culinari, sessuali, fisici, appaiono fuori luogo e, come dire, disturbano una storia che ha sicuramente tutti gli elementi per essere, se altrimenti condotta in questa parte, avvincente. Sebbene ritornerà ad esserlo più avanti, con l’entrata in campo di Agrò, non più l’Italo magistrato, poi avvocato, che abbiamo conosciuto negli altri romanzi di Cacopardo, bensì l’omonimo nipote… ma non senza, nel lettore, lo sconforto per quel lungo passaggio la cui unica cifra narrativa non doveva né poteva essere altra che il dolore, lo strazio di un padre, la sua incapacità di pensare ad altro che alla orrenda fine della quale poteva essere vittima la sua unica, amata figlia, precipitandosi a Roma per accertarsi se davvero fosse suo quel giovane corpo mutilato della testa e degli arti, naturalmente coltivando dentro di sé la speranza – anche se tutte le circostanza congiuravano contro di lui – che fosse un’altra persona, una sconosciuta. Ma questo lo lasciamo scoprire al lettore…
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