Con “Il suo freddo pianto”, edito da Einaudi, Giancarlo De Cataldo è arrivato al terzo romanzo con protagonista il suo magistrato Manrico Spinori, la cui vita famigliare – una madre contessa, affetta da ludopatia, il suo solerte e affezionato maggiordomo Camillo, la moglie separata Adelaide, in trasferta di lavoro negli Usa e il figlio Alex, aspirante musicista – fa da sfondo insieme al altre relazioni, di lavoro in particolare e, più altalenanti, di tipo sessual-sentimentali e alla passione per la musica lirica, ai casi criminali che, di volta in volta, si presentano alla ribalta dei lettori.
C’è da dire che ci troviamo davanti a dei piccoli capolavori di compostezza narrativa, perfetti in ogni loro parte, e forse quest’ultimo romanzo è, in questo senso, l’esempio migliore, privo com’è di qualsiasi sbavatura (ben inteso, non che gli altri lo fossero di meno, anzi!).
La storia che narra – quella di un vecchio delitto di dieci anni prima e relativa condanna del presunto colpevole, condanna comminata dallo stesso PM Spinori, che un “pentito” spiffererà nel corso delle sue rivelazioni alla giustizia, essere un errore, così turbando l’animo del magistrato – si incastona narrativamente con ammirevole equilibrio in ogni aspetto del giallo.
Il vecchio delitto, risalente al 2009, riguarda l’omicidio di un trans di alto bordo, tale Francesco Lo Moro che si prostituiva con il nome di Veronica e che aveva tra i suoi clienti personaggi di spicco della vita pubblica, sociale, politica e militare. La dinamica dell’omicidio, la raccolta delle prove, e quant’altro avevano portate tutte a un alto rappresentante dello Stato che, per la vergogna, si era suicidato in modo da confermare la colpevolezza, sulla quale poi la magistratura, a cominciare da Manrico Spinori, ha fatto sonni tranquilli per dieci anni nella convinzione, da vedere se falsa o meno, di aver fatto giustizia.
A Spinori e alla sua straordinaria squadra di investigatrici, straordinaria anche per la caratterizzazione che De Cataldo ha saputo dare a ciascuna di esse, e in particolare alla Deborah Cianchetti, senza la cui presenza ormai il lettore si sentirebbe orfano di un personaggio che, nell’economia delle parti, risulta essere fondamentale, motivo di divertimento e autentica compagnia. In questo senso, ottima spalla del magistrato dalle origini nobili, del quale è tutto il contrario, sia dal punto di vista del carattere che del linguaggio, lui tutto educato, mentre lei, Deborah, nome rubato dai genitori a qualche telenovela e di origini borgatare e romanesche, è una molto politicamente scorretta, rispetto al comodo pensiero radical chic del suo capo, dal domicilio nel palazzo avito in via Giulia. Ad unirli, la stessa onestà di fondo e spirito di servizio nell’esercizio del proprio lavoro.
Ed è proprio questa onestà di fondo e il senso profondo di giustizia che il “pentito”, con la sua rivelazione di un possibile errore giudiziario da parte di Spinori, agita il suo ufficio tanto da affrettarsi nel riprendere le carte del processo di allora, nel risentire i testimoni e i vecchi clienti del trans, indagando nuovamente su ogni passo che lo aveva condotto al possibile errore se mai c’è stato, trovandosi addirittura, a un certo momento, a confronto con la figlia stessa del presunto colpevole che non esita ad accusare Spinori di omicidio del padre per averlo spinto, lui uomo innocente, al suicidio. Una aperta denuncia tale da spingere il magistrato a chiederle scusa. Ma è troppo poco. “Non glielo perdonerò mai” gli rinfaccia la figlia, spingendo così uno Spinori tormentato dal senso di colpa a trovare il vero assassino di Francesco Lo Moro, alias Veronica.
Vale, nelle indagini, nei rapporti interni all’ambiente della giustizia, nel confronto con la criminalità e il mondo dei segni di questa, nel linguaggio a più strati, e spesso subliminare, che lo definisce, così come anche quello della giustizia e delle sue gerarchie e rapporti politici che li inquinano, vale il fatto che Giancarlo De Cataldo sia, non solo lo scrittore che è, ma anche un magistrato, un giudice di lungo corso, e che quindi ben conosce la realtà che egli, attraverso questa particolare serie di romanzi incentrati su un suo “collega”, bene, anzi benissimo, rappresenta.
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