L'aria è secca, calda, satu­ra dell'odore delle spezie, del bestiame, dei rifiuti lascia­ti un po’ dovunque nelle stra­de. E' un odore inconfondibi­le, quello che si respira nei ba­zar di questa parte dell'Asia che nella sua storia ha pratica­mente conosciuto solo la guer­ra. Siamo a Landi Kotal ultimo centro urbano accessibile agli occidentali prima di Torkham sulla “Linea Durand” che costi­tuisce il confine tra l'Afghani­stan e i territori dei Nordovest pakistano. È un’esile linea di demarcazione, lasciata dal Raj, la dominazione inglese dominata dalla Compagnia delle Indie Orientali.  Qui, nel 1883, fu  stabilita una serie di postazioni contrassegnate da numeri visibili a distanza, pietre bianche contro la roccia scura. Era il limite oltre il quale i Siphai inglesi non erano riusciti a passare, vinti da una natura ostile e da guerrieri ancor più feroci.

La via per il passo Khyber, e quindi per il territorio afgha­no, sale tra montagne brulle color ocra come un'anaconda di asfalto, percorsa incessante­mente da camion coloratissi­mi, carichi sino all'inverosimi­le di uomini e merci. Qui, so­no le tribù nomadi Pathan a imporre le loro leggi tribali, frutto di una tradizione guer­riera antica di centinaia di an­ni. Wazir, Bangash, Afridi, Mohmand e Yusufzai, piccoli gruppi tribali spesso in lotta gli uni contro gli altri ma legati da una cultura unitaria che detta regole di vita e compor­tamento da entrambe le parti del confine. La fede musulmana ha permesso un precario equilibrio tra i capi dei vari gruppi tribali e il governo pakistano. La Guardia di Fron­tiera pakistana ha il compito di dirimere le varie controver­sie tra le tribù, ma si tratta di un incarico delicato e perico­loso: i Pathan sono un popolo guerriero con tradizioni e co­dici d'onore molto rigidi.

Qualsiasi violazione può degenerare in sanguinose rappresa­glie. I Pathan coltivano un vero e proprio culto della ven­detta. Le dispute riguardano principalmente tre ordini di problemi legati all'oro, alla ter­ra e alle donne (in lingua pasthun Zar, Zamin, Zar). Per le strade di Landi Kotal come nei numerosi villaggi di frontiera, donne non se ne vedono quasi, quelle poche che si avven­turano per i vicoli del bazar portano una palandrana che le ricopre da capo a piedi, la­sciando spazio solo per una fit­ta griglia davanti agli occhi. Qualsiasi approccio, anche il più banale (compreso il tenta­tivo di scattare fotografie) può rivelarsi pericoloso. 

La nostra scorta armata (indispensabile e obbligatoria per arrivare al passo Khyber per un occi­dentale) ci as­sicura che, in caso di reazio­ni violente da parte dei Pathan provo­cate da un in­teresse giudi­cato indiscreto verso le loro donne, non potrebbe far nulla per sot­trarci alla sharia, la legge islamica che, in merito, impone una punizione.

Questa, presumibil­mente, sareb­be eseguita con le armi. Del resto ad accoglierci alla porta di Jarmud, la “Soglia dei Leoni” c’è un solo uomo, cosa potrebbe fare in caso di pericolo…

Qui tutti girano armati, milizia­ni e civili sfoggiano un equipaggiamento quanto mai eterogeneo. Kalashnikov, mitragliette Skor­pion, vecchi fucili Enfield, pi­stole di ogni foggia e prove­nienza.

Tutte armi rigorosa­mente false. Gli artigiani locali sono specializzati nella replica esatta di ogni genere di arma da fuoco che si vantano di po­ter copiare in pochissimo tem­po. Durante il recente conflit­to russo-afghano (questo articolo risale al mio viaggio nel ‘94), quando Peshawar pullulava di mercenari e consi­glieri di guerra occidentali e cinesi, i Pathan hanno incre­mentato ancora la loro produ­zione rifornendo i loro “cugi­ni" oltre frontiera, i mujaheddin. Nel suo saggio Le guerre segrete della CIA (Rizzoli, 2005) Steve Coll racconta che la Compagnia cessò ogni attività con i capi tribali nel 1992 lasciando che, nella zona tribale a cavallo del passo Khyber  proliferasse ogni genere di traffico. Non è un segreto per nessuno che signori della guerra come il generale Dostun, rivelatosi indispensabile per la risoluzione del conflitto con i Talebani del 2001-2002, sia un potente trafficante di origine uzbeka e che sin da quell’epoca avesse il controllo dei campi di papavero della regione denominata Mezzaluna d’Oro. Tra le  varie “curiosità” di questa brutta faccenda c’è il fatto che Dostun prima collaborava con i russi - in particolare con il famigerato Kahad, il servizio segreto del governo fantoccio di Kabul - poi passò alla  resistenza, quindi tornò a essere semplicemente un gangster, nemico giurato di Shah Massoud, il capo dell’alleanza del Nord assassinato due giorni prima dell’attacco alle torri gemelle di New York. Quando arrivarono gli americani nelle province settentrionali la situazione era difficile. Fu l’accordo con Dostun – che a un certo punto puntò anche i piedi pur di entrare nel nuovo governo – a causare il crollo dei Talebani. Nel frattempo lo Special Air Service inglese era penetrato nella regione con una missione particolare. L’operazione “Leopard” prevedeva la distruzione dei campi di papavero da cui si estrae quello che, dopo la morte del generale Khun Sah in Indocina, viene considerata la migliore eroina sul mercato. Boicottati dagli “alleati” americani  e lasciati soli in territorio ostile gli inglesi salvarono a stento la pelle. Nel 2005 l’Afghanistan è tornato a essere il maggior produttore di eroina del mondo. La droga, prodotta dal misterioso personaggio conosciuto come  il Leopardo delle Nevi, passa dal Khyber, viaggia sino a Karachi e viene convogliata verso l’Europa e gli Stati  Uniti dalla mafia russa. Chissà chi sarà mai il Leopardo delle Nevi? Di fatto con tutte le tonnellate di bombe scaricate in Afghanistan neanche un campo di papavero è stato toccato e, si dice, che il presidente Muzharraff sia riuscito a contenere le masse di volontari musulmani pronti ad accorrere in aiuto del mullah Omar stringendo ancora una volta un accordo con le tribù della frontiera del Nord-Ovest che rimangono libere di commerciare armi e droga a loro piacimento. Tutta la regione, aspra, selvaggia oggi come allora è una terra di nessuno, dominata da leggi tribali imposte con la forza dei fucili.

Il centro nevralgico della produzione di armi locale è un villaggio a circa 45 chilometri da Peshawar, Darra. In realtà il villaggio, composto da basse case in legno e in muratura che si affacciano su una main street simile a quelle dei vecchi paesi del Far West, si chia­ma Zarghun Khel (la “Stirpe dei Zarghun” dal nome della tribù che vi risiedeva originariamente) e domina un pas­so che, nella lingua locale, è noto appunto come appunto Darra. Con il passare degli anni il villag­gio abitato dalla tribù degli Afridi di Zarghun  è diventato semplicemente Darra Bazar, il bazar del passo.

La tradizione degli armaioli locali ha origini antiche, nel 1809 Montstuart Elphinsine, viaggiatore inglese, giunse in questi territori ed ebbe modo di apprezzare la qualità dei lunghi moschetti fabbricati a Darra, gli jezail.

Il primo vero laboratorio per la costruzione di armi su modello occidenta­le aprì nel 1897, in seguito a un accordo tra le tribù Pathan e il governo di Sua Maestà che consentiva ai discendenti di Zargun di fabbricare delle re­pliche dei fucili Lee Enfield in cambio del diritto di passaggio attraverso il passo.

Nei negozietti che si affaccia­no sulla via principale del paese è possibile trovare ogni tipo di arma, dalle penne-pi­stole ai mitragliatori da guerra russi o cinesi. Per duecento dollari si può acquistare una replica esatta di un Automat Kalashnikova 47 con tanto di caricatore ricurvo.

Peccato che di fronte a tanta scelta il turista occidentale, per quanto invogliato, sia costretto a desi­stere. Il Pakistan è un paese integralista sul quale gravano leggi di polizia particolarmente severe. Fuori dalla zona controllata dalle tribù i posti di blocco so­no molto frequenti e i funzio­nari addetti al controllo degli scarsi turisti particolarmente pignoli.

Farsi “beccare” con un'arma acquistata a Darra o in uno dei tanti bazar della frontiera ga­rantisce solo una serie infinita di guai! Le botteghe degli ar­maioli sono gestite ciascuna da un diverso gruppo familiare i cui componenti si tramanda­no di padre in figlio i segreti di una lavorazione complessa, eseguita spesso con attrezzi vetusti e rudimentali. Ogni gruppo familiare è specializza­to nella fabbricazione di un componente, così ci sono quelli che si dedicano alla co­struzione delle canne, dei meccanismi di ottu­razione, dei proiettili. Per le strade non è in­frequente che le armi stesse vengano provate a cielo aperto, con qualche scarica sparata allegramente in aria. Nessuno si scandalizza o si spaventa. Durante la giornata, il fra­gore delle detonazioni è pres­soché continuo e piuttosto in­quietante, almeno  per il viag­giatore occidentale­. I principali acquirenti sono i Pathan stessi, gruppi politici e contrabbandieri della zona che contrattano sul prezzo di gros­se spedizioni di fronte a una tazza di tè verde in uno dei tanti fumosi localetti che si al­ternano alle botteghe degli ar­maioli. Questi sono abilissimi non solo a riprodurre i mecca­nismi di sparo delle armi più svariate ma anche a contraffar­ne i marchi originali rendendo quasi impossibile riconoscere le copie dagli originali.

Con orgoglio un vecchio armaiolo con la barba canuta tinta di rosso con l'henné, ci ha mo­strato due modelli di Astra-Fal­con, un'arma da pugno tra le favorite nella regione, sfidan­doci a riconoscere il modello originale da quello contraffat­to. L’unica differenza, abbia­mo scoperto, consisteva nelle viti che fissano le guancette al­l'impugnatura. Quelle della co­pia hanno la scanalatura non perfettamente centrata... Ov­viamente la maggior parte del­le armi prodotte a Darra finisce nelle mani dei contrabbandieri che, da queste parti, possono godere di una relativa immu­nità da parte della polizia pakistana. Come il commercio della droga, la fabbricazio­ne delle armi fa parte delle tradizioni dei Pathan che da essa traggo­no la gran par­te del loro so­stentamento.

Per i montagnard locali la droga non è un problema, il Corano ne vieta l'uso, eccezion fatta per qualche fumatina di tanto in tanto... e a imporre una legge più rigida il governo di Islamabad non ci prova neppure.

Come ci spiega la nostra scorta armata è stato sufficien­te dire ai Pathan della regione che gli invasori russi non cre­devano in Dio per spingere ogni guerriero ad attraversare il confine afghano e unirsi alle varie bande di mujaheddin.

Non avevano paura della po­tenza militare sovietica? La no­stra guida sorride e mostra or­goglioso il suo Kalashnikov. “Qui c'è un detto”, afferma “One Comunist, One Bullet!” Come a dire: c'è un proiettile per ogni soldato russo! Una affermazione che la dice lunga sulla bellicosità e la determina­zione di questo popolo di montanari guerrieri. E oggi, a più di dieci anni dal mio viaggio in Pakistan, la situazione mi sembra rimasta identica.