Café Nopal: il tortilla-noir
C’è stato un momento, una dozzina di anni fa, in cui il Messico sembrava essersi candidato a rivestire un ruolo di spicco fra i possibili scenari dell’allora nascente – complice tal Luigi Bernardi, bolognese - giallo all’italiana. Colpa di uno sparuto manipolo di giovani che - in tempi ancora precedenti, diciamo quelli attorno alla Milano da bere, si erano esiliati più o meno volontariamente nella terra di Emiliano Zapata e di El Morisco, scoprendo in breve almeno tre cose:
a) di aver nel cuore – caray! - una gran voglia di scrivere;
b) che il Messico aveva la pericolosa tendenza a risucchiare in una sarabanda infernale di disavventure di proprozioni bibliche gli sprovveduti che lo visitavano senza le dovute cautele - al di fuori cioè della ciambella salvagente e del filtro opaco di una breve vacanza;
c) che simili disavventure, vissute in prima persona e proiettate sullo sfondo abbagliante del deserto di Durango, della Barranca del Cobre o della selva del Chiapas, erano fonte inseauribile di storie che chiedevano, anzi, pretendevano di essere raccontate.
Insomma, il Messico era un altrove ideale, in cui i confini fra reale e immaginario potevano essere ridisegnati a piacere, uno scenario in cui le schegge di una generazione che non aveva voluto saperne di crescere e che si rifiutava di assistere al crepuscolo dei propri sogni, pestavano i piedi, affermando il proprio diritto a vivere la Grande Avventura che gli anni di piombo, seguiti dall’opulenza smaccata e dalla banalità dilagante degli anni ’80, gli avevano prematuramente sottratto.
Ma il tempo non sta fermo, i decenni si chiudono e ne nascono di nuovi e a un certo punto, con l’inizio degli anni ’90, uno a uno i nostri antieroi cominciano il rientro in patria, molti con ambizioni letterarie mai realizzate, alcuni con un manoscritto nello zaino. Il risultato dopo poco è stata la comparsa nelle librerie di una serie di romanzi che, pur con le dovute diversità, avevano molto in comune: prima di tutto, l’ambientazione messicana; poi, la connotazione noir, thriller, o comunque avventurosa della trama; infine, il fatto che i protagonisti, tutti italiani, non si trovassero in Messico in modalità, diciamo così, normali, tutt’altro: lungi dal vivere in serena beatitudine il soggiorno centroamericano, erano invece sempre sulla twilight zone che separa il mondo omologato da quello oscuro: clandestini alle prese con problemi di visto, squattrinati alla ricerca di un modo di sbarcare il lunario, ex rivoluzionari in fuga da un torbido passato di cui non amano parlare e via dicendo. Che poi, nella meticolosità della caratterizzazione l’autore si tradisca, lasciando intuire quanto, se non tutto, ci sia di autobiografico nella narrazione, ci sta più che bene.
Un posto d’onore, fra questi tortilla-noir, spetta a Cafè Nopal, di Alfredo Colitto, che già aveva pubblicato il romanzo con lo pseudonimo di Alfredo Sereni per Hobby & Work, e che ora ce lo ripropone, migliorato da un ottimo editing e da un incipit completamente nuovo, per Alacràn Edizioni.
A sgombrare il campo da equivoci diciamo subito che chi scrive conosce Alfredo proprio dai tempi in cui tutti e due si era in Messico a fare le grandi prove delle storie che poi avremmo scritto. Era stato un incontro fulminante. Scendevo a cavallo dal Quemado, un monte nei paraggi di Real de Catorce, proprio mentre Alfredo ci stava invece salendo a piedi - cosa che, secondo i maligni, è inquietantemente simbolica delle nostre diversità caratteriali. Ci si fermò a scambiare quattro chiacchiere, come si usa fra viandanti, così scoprimmo di avere in comune alcune cose: innanzitutto, si era italiani, poi si aveva tutti e due, appunto, un manoscritto nello zaino; vabbè, c’era anche il fatto singolare che, anni prima, ai tempi del liceo, un mio zio lo aveva rimandato a settembre in ginnastica, ma questo non c’entra. Quello che c’entra è che nei mesi a seguire si fece amicizia, ci si lesse reciprocamente e si fecero piani e sogni per il nostro avvenire di scrittori.
Altri tempi.
Bueno, lasciamo perdere. Stavamo dicendo di Cafè Nopal. Allora, c’è questo Enrico Beyle, il protagonista dal nome volutamente Stendhaliano: buona famiglia, esperto d’arte, viaggia con una Divina Commedia tascabile nello zaino, è abilissimo nell’uso del coltello - virtù appresa da ragazzo e che gli sarà utile in almeno un’occasione, della serie impara l’arte e mettila da parte - e non gliene può fregare di meno di tornare a vivere in Italia e prendere il suo posto nella società civile. Chiamatelo scemo. Enrico sta con Blanca, una tossica che cerca di uscire, come direbbe certa stampa, dal tunnel della droga e che in avvio di romanzo scompare. Enrico, che si era impegnato ad andare ad acquistare un reperto maya dagli indios per conto di José, un mercante d’arte di Città del Messico, deve barcamenarsi fra la partenza per un villaggio nella foresta vicino alla frontiera del Guatemala e andare alla ricerca della ragazza scomparsa. Di lì in poi l’avventura decolla trascinandoci via via a Los Angeles, nella Sierra Tarahumara, a Zipolite in un crescendo di tensione drammatica.
Trama ricca e ben costruita, con un ottimo dosaggio nell’alternanza dei punti di vista. Personaggi credibili e impeccabilmente disegnati. Scrittura piacevole e snella, molto immediata e priva di inutili orpelli. Si avvertono qua e là, come spezie esotiche, influenze Chandleriane e hard boiled ma ci stanno deliziosamente, stiamo leggendo un noir, nel caso qualcuno non se ne fosse accorto. Insomma, una lettura che non lascia delusi, di quelle che vi fa voltare le pagine in fretta fino a tre quarti per poi, verso la fine, rallentare per prolungare il piacere. Da non perdersi. Aspettiamo con ansia il seguito.
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