Giorgio Scerbanenco è il nostro Georges Simenon. Non è solo un riferimento di semplificazione giornalistica. I due Giorgio hanno tante cose in comune. Innanzitutto sono due scrittori che hanno praticato il romanzo popolare in tutte le sue forme e sfumature, dal giallo classico al noir, dal romanzo sentimentale alla spy-story, poi entrambi hanno avuto una produzione altissima con decine e decine di romanzi e centinaia di racconti con protagonisti che sono entrati nell’immaginario dei lettori come il commissario Maigret per Georges e Duca Lamberti per Giorgio. Al di là poi della vita letteraria anche quella privata ha punti di contatto: uno su tutti, una vivace serie di amori la cui esperienza è entrata, seppur opportunamente mascherata, nelle storie che hanno raccontato.
Questa somiglianza deriva chiarissima dalla bella, affettuosa quanto franca biografia scritta dalla figlia di Scerbanenco, Cecilia, per i tipi de La nave di Teseo. Tanto franca che, affondando nel vasto materiale raccolto negli Archivi Scerbanenco, di cui è fondatrice e responsabile, e in particolare con il contributo di Roberto Pirani, bibliografo ufficiale dello scrittore, Cecilia ci ha dato un ritratto del padre nella sua interezza, senza falsi pudori e ipocrisie, sia sul piano umano che su quello professionale. Il che, oltre a farle onore, la mette nella condizione di ricevere i ringraziamenti di tutti coloro che, come chi scrive, vedono in Giorgio Scerbanenco un maestro del romanzo popolare italiano, inteso nella sua più alta espressione, quale quella di coniugare una grande capacità narrativa con storie e contenuti non banali in grado di colpire il cuore e la mente di qualsiasi lettore, dal più semplice al letterato. Ciò spiega la fortuna di questo scrittore di essere apprezzato sia dalla ormai mitica “casalinga di Voghera” che dall’intellettuale più raffinato.
Ma il valore, anche utilitaristico, per i lettori di Scerbanenco, è quello di entrare nel suo laboratorio, scoprire i suoi metodi di lavoro, la sua disciplina (riusciva a scrivere tre romanzi in un anno, pur lavorando come giornalista e dirigendo settimanali), di come tanti elementi della sua vita personale entravano nelle storie che raccontava. Una vita ricca di eventi, a cominciare dalla nascita. Figlio di una italiana, Leda Giulivi, e di un ucraino, Valeriano Afanas’evič Ščerbanenko, professore di greco e latino all’università di Kiev. Poi gli inverni gelidi da una parte e il succedersi degli eventi violenti tennero lontani i due coniugi per lunghi periodi, con viaggi soprattutto di Valeriano in Italia e il piccolo Giorgio un po’ in Italia e un po’ a Kiev, come si viene a sapere anche da una dichiarazione autografa del 1935 di richiesta di cittadinanza da parte di Giorgio stesso recuperata da Cecilia che certifica: “Dalla nascita al mio decimo anno di età, sotto tutela paterna: soggiornò alternativamente a Roma, presso la madre, e a Kiev (Russia meridionale).”
Finché la Rivoluzione di ottobre non ingoierà il padre, vittima per appartenere egli alla piccola nobiltà russa (la nonna Elena era un nobile polacca), evento che costringerà la madre e il figlio a tornare definitivamente in Italia. Leggiamo a riguardo: “Attraverso l’intervento dell’ambasciata italiana, madre e figlio riescono faticosamente a raggiungere Odessa, dove si mescolano alla moltitudine di profughi di varie nazionalità che tentano di lasciare il paese. Nel 1920 sono ancora bloccati nella città sul mar Nero, in un campo profughi. Alla fine riescono a imbarcarsi sulla ‘Carlo Poerio’, una delle navi inviate dal governo che li porta non in Italia, bensì a Istanbul. Da lì raggiungono fortunosamente Trieste, in un altro campo profughi e poi, finalmente, riescono a rientrare a Roma.”
Seguono pagine raccontate dalla stessa penna di Giorgio che ricordano i primi tempi di una vita misera con i parenti della madre, una vita di convivenza che alla lunga li stanca e spinge la madre ad andarsene a Milano, dove vive un suo fratello, lo zio Liborio che un po’ li aiuterà. Intanto trova al nipote un posto da operaio alla Borletti. Ma il futuro scrittore non si accontenta di quella vita. La sera frequenta le biblioteche della città “in particolare quella del Castello Sforzesco e quella di Brera”, finché non si ammala di una grave forma di broncopolmonite fibrosa che lo costringe al ricovero nel sanatorio di Cuasso al Monte. Intanto, conosce anche una donna, Teresa Bandini, che sposa nel 1931. Quando diciotto mesi dopo nascerà la loro prima figlia, battezzata Elena come la nonna paterna, la gioia della nascita è distrutta poco tempo dopo da un’infezione intestinale della bambina che muore. “Quella morte segnerà mio padre per sempre” scrive Cecilia. Tra l’altro, quel terribile evento creerà anche un solco tra i due coniugi che si separeranno.
Intanto la scoperta della scrittura, l’aiuto di Zavattini che lo fa scrivere nei suoi giornali, la sua continua crescita e affermarsi che si accompagnerà a una vita pur sempre ricca di eventi, amori, figli, tra cui, appunto, Cecilia che oggi, con devozione ma anche sapienza nel mettere insieme i tanti materiali biografici, documentali, bibliografici, editi e inediti, tra cui le interessanti schede di preparazione a un lavoro, sia esso un romanzo, un racconto o un testo di altro genere, teatrale o radiofonico, interviste (una su tutte quella bellissima di Oreste del Buono a Giorgio Scerbanenco), ha saputo darci questo libro che è anche una sorta di manuale per quanti aspirano a diventare, come suo padre un “fabbricante di storie”.
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