Prologo
Copper Center, Alaska
Erano i suoi ultimi trentadue secondi di vita.
Mentre il piccolo aereo – un bimotore CASA in dotazione alle forze armate – decollava dal campo d’aviazione, la maggior parte dei sette passeggeri a bordo guardava fisso fuori dai finestrini, considerandosi fortunata. Pochi avevano l’occasione di vedere quella parte del mondo, assai meno la base segreta che l’Esercito aveva costruito laggiù. Sulle carte geografiche, non esisteva. Su Google, era offuscata in modo permanente.
Nell’ultima fila, una donna dai capelli neri lunghi fino alle spalle era convinta di vivere un privilegio, ammirando le cime innevate dei magnifici pioppi tremuli dell’Alaska. Adorava che le radici di quegli alberi spesso crescessero insieme, sostenendosi a vicenda e formando un organismo gigante. Era il motivo per cui si era arruolata nell’Esercito tanti anni prima: per costruire qualcosa di più solido, assieme ad altri. E c’era riuscita solo quando era arrivata lì, in quella regione selvaggia e incontaminata.
Decisamente privilegiata, disse tra sé. Poi, all’improvviso, l’aereo cominciò a vibrare.
La sua prima reazione fu: Dai, raddrizzati. Era infastidita perché le vibrazioni le impedivano di scrivere bene. Sul tavolino pieghevole aperto, stava cercando di buttare giù una lettera al suo fidanzato Anthony: un bigliettino osceno, per informarlo di cosa aveva in mente di fare quella sera.
Sperava di lasciarglielo scivolare nella tasca posteriore, mentre lui, talmente sorpreso – ed eccitato – dal fatto che avesse affrontato tutto quel viaggio fino a Fort Campbell per il suo compleanno, non si sarebbe neanche accorto che gli infilava in tasca quel simpatico programmino. E se anche se ne fosse accorto, be’… per via dei loro impegni con l’Esercito, erano due mesi che lei e Anthony non si trovavano da soli l’una con l’altro. La mano di una bella ragazza sul sedere non gli avrebbe certo dato fastidio.
L’interfono prese vita crepitando. “Prepararsi al…”.
Il pilota non completò mai la frase.
L’aereo s’inclinò a muso in giù, come se stesse formando un arco sopra la sommità di un ottovolante. La donna dai capelli neri sentì lo stomaco torcersi. Era rimasta soltanto la discesa finale. All’improvviso, le arrivarono delle incudini sulle spalle, che la schiacciarono contro il sedile.
Diagonalmente rispetto a lei, dall’altra parte del corridoio, un tenente dell’Esercito con i capelli rossi rasati e gli occhi a triangolo fece una smorfia e afferrò i braccioli, cominciando a rendersi conto in quel momento della gravità della situazione.
Anche la donna dai capelli neri era dell’Esercito – un sergente di ventisette anni, addetta agli approvvigionamenti – e nei primi giorni di addestramento con gli Aviotrasportati a Fort Benning le avevano insegnato che, in caso di incidente aereo, le persone non si fanno prendere dal panico. Diventano docili e silenziose. Per salvarsi, bisogna agire.
L’aereo sobbalzò, facendole quasi cadere di mano la penna. La penna. La lettera. Ormai l’aveva già dimenticata. Pensò ad Anthony, le venne in mente di scrivere le sue ultime volontà… Poi ricordò quegli ultimi minuti prima di salire a bordo. Oddio. Adesso aveva senso. Lo stomaco le salì in gola. I pezzi grossi nella parte anteriore del velivolo stavano urlando. Lei sapeva perché quell’aereo stava precipitando. Non era un incidente.
Febbrilmente, buttò giù un altro biglietto, con la mano tremante e le lacrime agli occhi.
L’aereo sobbalzò di nuovo. Una sfera infuocata di carburante penetrò nell’apparecchio dal portellone di emergenza alla sua sinistra, dall’esterno. La camicia della donna prese fuoco. La spense con una manata. Si sentiva odore di plastica squagliata, eppure alla vista delle fiamme…
Il portellone. Era seduta davanti all’uscita di emergenza.
Sempre tenendo stretto il biglietto che aveva scritto in fretta e furia, afferrò la maniglia rossa del portellone con entrambe le mani e iniziò a tirare. Appena cedette, la fece scorrere di lato. Ci fu uno schiocco. Il portellone era ancora chiuso, ma la guarnizione era rotta.
Venti secondi alla fine.
Tentò di alzarsi dal sedile, ma la cintura di sicurezza… Era ancora allacciata. Freneticamente, cercò di abbrancarla. Clic. Era libera.
Sempre con il biglietto appallottolato nel pugno, ormai umido di sudore, appoggiò il palmo della mano sul portellone e diede una spinta. Era bloccato dal fuoco. Gli diede un calcio. Il portellone si aprì e un turbine di vento le sferzò i capelli in ogni direzione. Dei documenti cominciarono a volare per la cabina. Un telefono rimbalzò contro il soffitto. Gli altri stavano urlando, anche se lei non riusciva a capire nemmeno una parola.
Quattordici secondi alla fine.
Fuori, gli alti pioppi tremuli coperti di neve che prima sembravano così piccoli ora sfrecciavano verso di lei, facendosi ogni secondo più grandi. Conosceva le probabilità. Su un velivolo leggero in caduta libera, se la sorte non è con te, non ci sono speranze.
“Vai! Esci!”, gridò una voce maschile.
Non fece nemmeno in tempo a girarsi che il tenente con gli occhi a triangolo le piombò addosso a tutta velocità, cercando disperatamente di raggiungere l’uscita di emergenza.
L’aereo ormai era in caduta libera, un fumo arancione-rossastro riempiva la cabina. Undici secondi alla fine. L’uomo spingeva contro di lei con tutto il suo peso. Sapevano entrambi che saltando troppo presto – sopra i novanta metri – non sarebbero sopravvissuti all’impatto. Anche se avevano la fortuna di rimanere vivi, le fratture esposte alle gambe – nel caso in cui le ossa avessero lacerato la pelle – li avrebbero fatti morire dissanguati in un attimo.
No. Si doveva scegliere il momento giusto.
Finché non siamo alla cima degli alberi, disse tra sé, ricordando l’addestramento e osservando i pioppi, più vicini che mai. Il vento l’accecava. Il fumo le invadeva i polmoni mentre teneva a bada il tenente con una mano e stringeva il biglietto con l’altra.
“Vai! Dai!”, gridò l’uomo, e per un attimo sembrò che avesse la schiena in fiamme.
Otto secondi alla fine.
L’aereo precipitava in diagonale verso terra. Senza nemmeno pensarci, la donna ficcò il biglietto nell’unico posto dove credeva potesse restare intatto.
“Non abbiamo…!”.
Sei secondi.
Mise il piede sul bordo del portellone, si voltò verso il tenente e lo afferrò per la camicia, tentando di trascinarlo fuori con sé. Poteva funzionare. Potevano salvarsi entrambi.
Si sbagliava.
Il tenente si ritrasse. D’istinto. Nessuno ha voglia di farsi tirare giù da un aereo. Era la fine. Il tenente con gli occhi a triangolo si sarebbe, letteralmente, schiantato tra le fiamme.
A tre secondi dalla fine, la donna dai capelli neri si lanciò dall’aereo. Sarebbe atterrata sulle punte dei piedi, cercando ancora di seguire l’addestramento, mentre cadeva nella neve con un tonfo sordo. Un atterraggio perfetto. Ma anche mortale. Nell’impatto, si sarebbe rotta tutt’e due le gambe e spezzata il collo.
I soccorritori avrebbero trovato il suo nome sulla lista dei passeggeri. Nola Brown.
E il biglietto scarabocchiato in fretta e furia – le sue ultime parole – che aveva nascosto così bene? Quello lo avrebbe trovato la persona più improbabile di tutte.
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