Ho incrociato due volte Rolo Diez, una prima volta al Noir in Festival di Coumayeur e poi nel 2003 alla presentazione in libreria di questo romanzo, ed entrambe le volte la parola che mi è venuta in mente è "dignità". La dignità con cui questo signore argentino ha affrontato l’esilio per sfuggire alla repressione del bieco regime dei generali al potere nel suo paese negli anni Settanta, gli anni della guerra sucia (la guerra sporca), gli anni dei desaparecidos. La dignità con cui accoglieva l’omaggio del pubblico e le ovvie richieste di autografare i volumi. La dignità con cui si è ricostruito una vita passando dall’Italia, per approdare in Spagna e poi in Messico, dove tuttora vive, scrivendo, mettendo sulla carta quello che era giusto e sacrosanto ricordare. Dandogli la forma, l’involucro e anche la sostanza del noir, della novela negra; ma bravo com’è (perché Rolo Diez, credetemi, è davvero bravo), avrebbe potuto benissimo usare, che so, l’involucro dei romanzi alla Liala o alla Barbara Cartland, e avrebbe comunque prodotto splendidi libri. Prova ne è (se riuscite a trovarlo non esitate; speriamo che prima o poi venga ristampato) La ragazza che voleva la luna (Tropea, ed. it. 1998) un gioiello definito “il lato oscuro del romanzo rosa”, un capolavoro che rende ben meritato il premio Dashiell Hammett conferito a Diez nel 1995.
Come la vita, recita il titolo di un romanzo di un altro hombre di peso, Paco Ignacio Taibo II; e "come la vita" è questo Il Passo della tigre, pieno del dolore, dell’allegria, della violenza, della follia e del male di vivere di un paese e di un continente che ha nutrito grandi (e purtroppo illusorie) speranze di rivoluzione di libertà, sogni che si sono tramutati nell’incubo delle dittature militari protette e coccolate da mamma CIA. Certo, c’è una trama; c’è un rapinatore incappucciato che assale negozietti e palpa tette e culi (non uso eufemismi, per parlare di un libro che ne fa a meno; se volete eufemismi, non leggete questo libro…) di ogni donna presente; c’è un commissario di nome Aguirre, con un passato da tupamaro in attesa di una rivoluzione mai arrivata, cui è affidato questo caso; c’è una nonna della Plaza de Mayo, in cerca da anni di un nipote sottratto dai militari ai genitori dopo averli assassinati; c’è una ragazza stanca di vedere la sua carne straziata dagli ingranaggi di un grosso giro di prostituzione, protetto da complicità ad alto livello; c’è un mobiliere ebreo, (anche solo la sua storia vale il libro…) che anni addietro ha adottato un bambino; ci sono poliziotti che invece del loro dovere si fanno la guerra per spartirsi bottini assortiti, e poi matti veri e finti, vagabondi, poveri diavoli massacrati dalla povertà… Chi se ne frega della trama (ma c’è, giuro); questo è un grande romanzo, con dei difetti, certo (chi ha mai detto che i grandi romanzi non ne hanno?), scritto con il cervello e le viscere, e il cuore a far da intermediario, da cui sgocciolano vita & letteratura ad ogni pagina. Leggetelo (spero si trovi ancora, magari ordinatelo), vi piacerà e mi ringrazierete; e a quel punto dovrete mettervi a cercare anche Il ritorno di Vladimir Ilic (1996) e Gatti da tetto (1999), senza dimenticare Mato y voy, compreso nell’antologia La banda dei quattro, del 2000, in cui oltre a Diez ci sono PIT II, Leonardo Padura Fuentes e Daniel Chavarrìa, il tutto edito dal solito Marco Tropea.
Se invece non vi piacerà… beh, temo di dovervi dire che non diventeremo mai amici.
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