Come già nello stupendo racconto “Io sono la chiesa” dell’antologia “Nessuna più”, in questo primo romanzo per ragazzi di Marilù Oliva, “la squola” Liberaria Edizioni, è l’edificio, scenario degli eventi e testimone di segreti, ad aprire la narrazione.
Mi chiamano “LA SQUOLA”, con la q., recita infatti l’incipit, ed è un prestigioso liceo artistico bolognese, costruito negli anni trenta, nelle cui aule hanno insegnato Giorgio Morandi e Alfonso Gatto, che approccia i lettori con il compiaciuto eloquio di un vecchio insegnante innamorato dei giovani.
Dalla parte dei giovani.
E ai ragazzi questa squola presta il fianco, perché ricoprano la parte bassa della facciata di graffiti, consapevole di non essere deturpata, ma adornata.
Accanto ai trentatré pavoni blu dipinti su un intero lato dell’edificio (blu è il colore dell’anima e della perduranza), qualcuno ha scritto il celebre verso di Catullo, Odi et amo…
Ed è in questa nitida, incantevole descrizione iniziale, che è condensato l’impianto simbolico delle storie racchiuse, il binomio sotteso alla trama: amore e bellezza, nelle molteplici accezioni, e rappresentati dalla Venere azzurra, magnifica statua collocata nell’atrio, rinvenuta una mattina, nella costernazione generale… decapitata!
Mentre una piccola scultura di Cupido, forgiata da un alunno di primo liceo, rubata, donata, restituita e infine proposta in cambio di un favore, è forse la multiforme metafora degli “usi” propri e impropri del talento e dell’amore.
Si è indecisi, leggendo le prime pagine, su come catalogare il libro, coraggioso e profondo per quanto riguarda le tematiche, ma scritto con una tersa prosa mimetica che riproduce a tratti lo slang dei giovani e la loro mentalità. E certamente “La scuola” non si discosta dalle nuove tipologie di romanzo per ragazzi, tese a scoperchiare problematiche troppo spesso ammantate di retorica o falsi pudori: la disfunzionalità di molte famiglie, l’inadeguatezza delle istituzioni e dei ruoli, l’annaspare dei docenti, il bullismo, lo spaesamento di tutti, l’impatto con il sesso…
Ma, a prescindere da riduttivi incasellamenti, “La squola” è soprattutto un libro animato dalla innovativa certezza che è possibile reiventare una lingua condivisibile e fresca che riconnetta gli interlocutori tra loro e alla bellezza da cui gli affanni generazionali, e i mutevoli contesti, trascinano via. Un intento che si realizza già nelle pagine, fruibili da adulti e ragazzi, e pertanto in un certo senso interattive.
Un libro che induce alla riflessione e solleva questioni, ma che propone pure delle soluzioni, anche se in chiave narrativa, e pertanto profondamente educativo.
La trama si dipana secondo uno schema tipicamente autoriale: tanti protagonisti, tante narrazioni, tutte in prima persona.
Le vicende di Cecio, Fil, Pauline e Miluna, si alternano intrecciandosi progressivamente in un’escalation imprevedibile che ci ricorda la maestria di Marilù Oliva nel noir. Il mistero della Venere decapitata infatti sarà svelato alla fine con esiti rassicuranti, perché in questo romanzo, pervaso da un ottimismo di fondo nei confronti delle nuove generazioni, pulsa la certezza che spesso si è meglio di quel che le circostanze ci inducono a fare.
Pauline, Miluna, Cecio e Fil provengono da contesti familiari molto diversi.
Il padre di Fil, chirurgo estetico, è coadiuvato in studio dalla moglie assistente, donna di plastificata e atemporale avvenenza, a cui tanto assomiglia la figlia minore. La loro casa è un set incrostato di ricchezza e animato da impianti hi-tech che addirittura mandano musiche in ciascuna stanza non appena vi si entri, come colonne sonore di performance recitative che poco hanno della vita vera.
E forse è per sottrarsi a questa strutturale superficialità che Fil abdica alla comunicazione, diventando un ragazzo di poche parole, e si fa bullo, prevaricatore distratto dei più piccoli.
Tra le vittime Cecio, un primino affetto da problemi di crescita e oppresso dalla preoccupazione dei bravi genitori.
Pauline è invece l’esito di una lunga e irreparabile incomunicabilità con le figure genitoriali, oppressive, recriminanti e incapaci di rispetto. Questa opacità nello sguardo del padre e della madre fa di lei una ragazza trasparente, ossessionata dalla magrezza, ingorgata di gelosia, trasgressiva per ritorsione, eppure segretamente attratta dalla bellezza dell’amore cantato da Catullo, che ritraduce nel proprio slang giovanile.
I tre ruotano attorno alla dolente e vulnerabile figura di Miluna, il personaggio forse più commovente, una bellissima sedicenne adultizzata e schiacciata da un ingestibile segreto.
É nelle descrizioni del rapporto di Miluna con la madre incapace e anaffettiva, di cui la ragazza si prende cura, che la penna di Marilù Oliva si fa delicatissima e penetra, senza mai giudicare, nelle dinamiche intricate dell’abuso. Nella confusione valoriale che sempre subentra all’errata convinzione che dare in pasto il proprio corpo possa essere, da parte di chi si sente non amato e reietto, l’unico modo per divenire insostituibile.
Fraintendimenti, equivoci e colpi di scena si susseguono nella squola, catalizzatore e arena delle vicende personali degli alunni, in seguito all’oltraggiosa decapitazione della Venere. Reati minorili, neppure percepiti come tali dai giovanissimi autori dei misfatti, cresciuti a videogame violenti, attaccati al boccaglio di una superficialità insufflata dai cellulari maneggiati dall’infanzia, abituati a considerare i criminali come dei supereroi.
Ne è ben consapevole Miluna, la cui vita deraglia nel disperato e abnorme tentativo di proteggere la madre passiva, quando afferma che gli anni trascorsi appiccicati a uno schermo le hanno installato dentro un serbatoio di emozioni/opinioni/ambizioni di cui non riuscirà a liberarsi.
Tuttavia proprio lei, la più lesa e predata, ha individuato uno stratagemma infallibile per restare connessa alla realtà: la precisione lessicale. Sa infatti Miluna, che le parole non possono essere equivoche, e nel rispetto per il loro significato sono trasposti il concetto del limite e la chiave d’accesso a un’etica e al senso.
Interessanti e belle le figure dei docenti. Non tutte, ma la maggior parte, a partire dal preside Ugo Rivolta, idealista e animato da un profondo senso della giustizia. La concreta vicepreside Grazia Graziosi, e la precaria entusiasta Barbara Verni, che si fronteggiano piene di simpatia dai reciproci ruoli, intenzionate a tutelare gli allievi. Ed è questo uno dei punti di forza del romanzo, la concezione della scuola come occasione per riparare agli errori, anche umani, e apprendere da essi.
(Emblematica la scena del restauro della Venere decapitata, in cui i professori coinvolgono gli allievi bravi ma anche i problematici).
Una scuola che non colpevolizza, ma affianca e incoraggia, e riconosce alla fragile età dell’adolescenza il diritto all’indulgenza e a ripartire.
Una sorta di stazione di rifornimento insomma, da cui attingere la bellezza dei sentimenti come l’amore (cantati dalla poesia, raffigurati nell’arte, il cui palpito ancora si percepisce persino nelle iscrizioni e nei graffiti).
Rappresentativa e davvero incantevole, in questo senso, la figura della professoressa Suber, che si aggira tra i banchi spiegando con trasporto la passione tra Paolo o Francesca, o quella tra Catullo e Lesbia. E istillando così curiosità negli alunni. Persino nella più riluttante, Pauline, che da quel momento non riuscirà a sottrarsi al bisogno di ritradurre con parole nuove, fresche e proprie, i versi ascoltati.
Che poi è il senso della scrittura.
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