Si è tenuta dal 22 al 30 aprile 2016 la diciottesima edizione del FEFF, il festival di cinema popolare asiatico di Udine. Tante sono state le novità di quest’anno, a cominciare da una nuova tipologia di accredito, Red Panda, che limitava a quattro al giorno i film visibili da una stessa persona accreditata, escamotage che gli organizzatori hanno ideato probabilmente per ovviare ai grandi problemi di fila creatisi con il passare degli anni, visto che ormai il FEFF non è più da tempo un appuntamento di nicchia per pochi appassionati, richiamando viceversa tantissime persone da tutta Europa e anche dal testo del mondo. La strategia si è rivelata vincente, visto che le code per entrare ai diversi film, anche quelli molto ambiti delle 20 o delle 22, si sono di molto ridimensionate. Un’altra iniziativa nuova molto interessante da parte degli organizzatori quest’anno è stata quella di proporre dei questionari sulla fruizione del cinema orientale da parte del pubblico che partecipa al FEFF; scopo dei vari questionari era quello di capire in percentuale quanti film occidentali da una parte e quanti film orientali dall’altra ciascuno spettatore fruisce normalmente, ma anche quello di capire se ci sia interesse per una distribuzione più capillare di film orientali rispetto a quelli occidentali, americani in testa, a cui viene garantita una visibilità pressoché totale e quasi dittatoriale. Alcune delle domande incluse nei questionari erano: “quanti film e/o serie televisive in lingue non occidentali ha visto nell’ultimo anno?” e ancora, “tra i suoi film preferiti ve ne sono di orientali?”, oppure “sarebbe interessato/o a una diffusione maggiore di film orientali nel suo paese?”, oltre che domande strettamente legate al Festival, come “da quanto tempo viene al FEFF?”, “può citare dei film apparsi al FEFF che l’hanno particolarmente colpita?”, “quale suggerimenti darebbe agli organizzatori del FEFF?”.
Oltre alle novità, il FEFF di quest’anno si è caratterizzato da un lato dal grande ritorno dell’Horror Day, solitamente polmone innovativo del cinema orientale a fronte di un panorama spesso troppo orientato verso la commedia romantica, e dall’altro da due omaggi: il primo al grande Bruce Lee, con diverse pellicole di arti marziali in versione restaurata, fra le quali The Way of the Dragon (1972) e il leggendario Fist of Fury (1972), omaggiato anche in uno degli slogan dell’edizione di quest’anno – Fury, Flame, Freedom – l’altro al cinema sci-fi giapponese degli anni ’70 e ’80, in particolare i film di Obayashi Nobuhiko, presente anche come ospite speciale al FEFF 18 e autore di film deliranti e di culto come House (1977) o School in the Crosshairs (1981).
Nonostante il numero esiguo di film visti dalla sottoscritta – appena 6 su un totale di 73, purtroppo neanche uno proveniente dall’Horror Day – vi sono sicuramente alcuni highlights da segnalare in questa edizione: primo fra tutti il ritorno di Tanada Yuki, già ospite del FEFF nel 2009 con il bellissimo One Million Yen Girl e quest’anno alla sua seconda partecipazione al Festival con Round Trip Heart (Romansu), una commedia che a dispetto del titolo originale non ha nulla di romantico ma pone a confronto due personaggi fra loro molto diversi e che tuttavia riescono a trovare il modo di capire e trovare se stessi con dolore ma anche con inaspettata leggerezza – una delle cifre stilistiche care alla regista – senza mai scadere nella banalità. Altro film molto interessante e ben riuscito, anch’esso proveniente dal Giappone, è stato Bakuman di One Kitoshi, tratto da un manga di successo e incentrato sul mondo stesso dei manga e dei mangaka, ossia gli autori di fumetto giapponese: benché un po’ rovinato dalla storiellina di (quasi) amore di contorno, praticamente obbligatoria per attirare il grosso del pubblico giovane e non, il film di One spicca soprattutto per come riesce a descrivere la competizione spietata fra giovani autori di nuove testate ma anche l’inaspettata solidarietà che si viene a creare fra loro per portare avanti una storia nella sua più vera e autentica vena poetica. Intenso e dal taglio meno spensierato è stato anche Fourth Place del coreano Jung Ji-woo, realizzato in collaborazione con la Commissione per i Diritti Umani e incentrato sulle punizioni corporali che molti giovani atleti coreani sono tutt’ora costretti a subire in nome della vittoria; forse non un capolavoro, ma sicuramente un film da vedere perché rivela alcuni aspetti importanti ma non sempre conosciuti della società coreana, come l’estrema competitività, dal regista definita come “un circolo vizioso da cui nessun coreano riesce ad uscire”, perché cercare di essere sempre i migliori, quelli che producono marchi di successo mondiale come Samsung, non lascia spazio all’immaginazione né al riposo, né tanto meno a una vera riflessione sul ruolo della pazienza come mezzo per coltivare il proprio talento rispetto alla violenza e alla sopraffazione.
Deludenti invece i pochi film cinesi visti, uno più banale e più brutto dell’altro, tanto da farmi decisamente pentire della dichiarazione entusiasta fatta ai due volontari che mi hanno somministrato il test a voce: “meno commedie romantiche coreane, più film cinesi!!”, dettata dalla mia passione viscerale per la Cina e per la lingua cinese, che studio da diversi anni. Se per film cinesi si intendono blockbusters come Lost in Hong Kong di Xu Zheng, in effetti ne faccio volentieri a meno. Molto apprezzato nella mainland, Xu Zheng in questo film è alle prese con imbarazzanti (e inutili) omaggi al cinema della new wave hongkonghese anni ’80 e oltre, dick jokes e volgarità sparse, con una conclusione buonista e consolatoria che rimette armonia in famiglia ed elimina ogni elemento perturbante dalla storia. Che dire poi di Mojin: the lost Legend di Wuershan, dove si vanno a scomodare persino la Rivoluzione Culturale e le teorie dei cinque elementi per cercare (invano) di dare spessore a una trama penosa e a una recitazione priva di incisività (Shu Qi è veramente sprecata nel suo limitarsi a gridare e a mettere il broncio). Ma forse il peggiore fra i tre film cinesi che ho visto è Chong Qing Hotpot di Yang Qing, se non altro perché ha pretese da cinema noir colto (e non lo è affatto) mentre gli altri due non pretendono di essere certo dei capolavori.
Per concludere, il passaggio alla maggiore età a suon di fury flame freedom il FEFF l’ha decisamente passato senza nessuna smagliatura. Ma le fiamme più ardenti sembrano essere sempre quelle giapponesi e coreane, sempre più raramente cinesi. Dove sono finite opere ingegnose e originali come The Story of a Close Stool di Xu Buming, PK.COM.CN di Xiao Jiang o Young and Clueless di Tang Danian? Forse bisogna dedurre che i registi cinesi non abbiano più nulla di interessante da dire? O semplicemente la sfortuna vuole che i pochi film cinesi che riesco a vedere al FEFF si rivelano sempre da qualche anno a questa parte i più brutti delle giornate selezionate?
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