Recentemente, in questa stessa rubrica, abbiamo rivendicato il diritto, ai fini dell’esplorazione delle amene terre del noir, di considerare la Catalogna come un paese letterariamente autonomo; ci prendiamo la stessa libertà con la Bretagna, territorio indiscutibilmente appartenente alla Francia, ma di lingua, tradizioni, cultura così singolari da distaccarsi nettamente dal resto dello stato transalpino (stessa sorte che capita alla Corsica o a certe plaghe occitaniche al confine con la Spagna).
Tanto più che l’autore del romanzo in questione, Jean Failler (ormai sessantacinquenne) è nato, vive e scrive in Bretagna e di Bretagna per cui l’osmosi tra terra e romanziere non potrebbe essere più stretta. La serie inaugurata da Omicidio a Lorient (località sulla costa meridionale bretone) in Francia è giunta già, nel giro di una quindicina di anni, al 26° episodio e la protagonista, Mary Lester (qui soltanto ispettore tirocinante), ha conosciuto, alla fine degli anni Novanta il successo televisivo su France 3.
Un’ultima annotazione: la collana in cui appare il giallo bretone è meritoriamente intitolata ai “luoghi del delitto” nella convinzione (da noi sempre asserita) che vi è nel poliziesco contemporaneo un forte legame tra le indagini e il retroterra geo-sociale da cui il delitto viene generato.
Purtroppo, in questo romanzo, le promesse rimangono tali: di Bretagna c’è un po’ di colore locale (il succedersi delle maree, la bruma che rende il paesaggio così malinconicamente attraente, la vita di provincia coi suoi tradimenti, le piccole beghe, la noia incombente) e niente più. Il romanzetto fila via con tanti personaggi (ahimé, a cominciare dalla protagonista dal nome facilmente scambiabile per anglosassone – che sia stata un’astuta trovata in vista della vendita dei diritti all’estero?) che assomigliano ai burattini del giallo inglese dei favolosi anni Trenta, ma senza lo spessore tecnico delle indagini. Certo, la nostra ispettrice, stretta tra l’indifferenza e, peggio ancora, il mobbing strisciante dei suoi colleghi (a cominciare dall’ispettore Amédéo, originario della Corsica) è capace di collegare gli sparsi indizi che è venuta racimolando, spostandosi da una sede all’altra del commissariato (naturalmente le assegnano i lavori d’ufficio più noiosi); e il finale garantisce una certa sorpresa nello svelare il responsabile di una serie di omicidi (un direttore di un ipermercato e un barbone) apparentemente slegati tra loro.
Ma l’intreccio si dipana in modo un po’ legnoso, i personaggi sembrano maschere della commedia dell’arte (il còrso maschilista e strafottente, il capo gentile e un po’ paterno alle soglie della pensione, la zingara di un campo diffidente e avida di quattrini, il clochard un po’ bevuto ma sostanzialmente buono) e il finale è tirato un po’ per le lunghe per permettere, in modo tipicamente vittoriano, che il colpevole riveli i moventi in qualche modo nobili dei suoi gesti, ma che paghi giustamente il fio delle sue colpe.
Un prodotto insomma di serie, senza infamia e senza lode, assai lontano dalle vette a cui ci ha abituato la narrativa d’indagine francofona (persino quella, come abbiamo visto, di paesi come il Marocco privi di una tradizione in questo settore): e l’incredibile fertilità dello scrittore, più che ricordare la leggendaria ma artigianale velocità di scrittura di Simenon, richiama la freddezza di una moderna catena di montaggio robotizzata. D’altra parte non è un caso che la lunghezza media dei romanzi (la Robin ha già mandato in libreria altre due avventure di Mary Lester) si aggiri attorno alle 120 pagine per di più nello smilzo formato della collana.
Purtroppo un’occasione persa per il poliziesco e per la Bretagna: un connubio che, in mani più esperte, avrebbe potuto sortire risultati davvero intriganti.
Voto: 5
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