Piergiorgio Pulixi ora è finalista al Garfagnana in Giallo e semifinalista al Premio nazionale Giorgio Scerbanenco con Il Canto degli innocenti.
Domanda d’obbligo: a pochi anni dal debutto nella scrittura noir con romanzi individuali, che effetto fa essere fra i semifinalisti dello Scerbanenco?
È una grandissima soddisfazione e al tempo stesso una enorme responsabilità verso i miei editori e i lettori, perché dopo questi ottimi risultati devo garantire un livello di storie, scrittura e intrattenimento ancora superiore. L'aver vinto anche il Premio Glauco Felici e il premio Franco Fedeli in questo 2015 sarà sicuramente uno sprone per cercare di fare ancora meglio, migliorarmi e non deludere i lettori. C'è ancora tanta strada da fare e tante cose da imparare. Questi premi sono il frutto di tanti anni di lavoro, ma ora bisogna andare avanti con ancora più impegno e dedizione, migliorando sempre con molta umiltà e spirito di sacrificio.
Il Canto degli innocenti è il primo capitolo di una serie poliziesca composta da tredici episodi. Perché tredici?
Non credo molto nella simbologia e nei riferimenti karmici. Però un giorno ho letto che il numero 13, in ambito karmico e spirituale rappresenta la "trasformazione" e la "resurrezione". Sono due temi fondamentali della serie e in qualche modo è lì che voglio portare il personaggio, Vito Strega. Una trasformazione che è palingenesi. Raccontare il suo viaggio nel male attraverso tredici canti, mi sembrava interessante per questo discorso della simbologia dei numeri. Aveva un non so che di misterioso, e la serie (e Strega stesso) hanno molto a che fare col mistero e con i lati più bui e profondi delle nostre anime.
Cosa ti sei proposto con la serie che hai intitolato I Canti del Male?
Cercare di esplorare attraverso il genere thriller/noir il rapporto che esiste e si crea tra l'uomo e il Male sia come essenza spirituale/psicologica che come semplice retaggio di un qualche errore di codifica del nostro genoma, un qualcosa che ci portiamo dentro e che alcuni fattori ambientali e certi traumi psicologici possono risvegliare. Il Male cambia le persone? E se sì, questo processo è più veloce nelle persone che per mestiere e vocazione ci hanno a che fare quotidianamente? La serie vuole rispondere a queste domande, costruendo canto dopo canto un mosaico sul Male.
Ne "Il Canto degli innocenti" affronti le problematiche del mondo adolescenziale, esposto per la sua fragilità a manipolazioni e condizionamenti di ogni genere. Nel romanzo appena uscito, Per sempre, quale tema tratti?
In "Per sempre" affronto diversi temi, ma quello più evidente credo che sia quello della famiglia. Una famiglia atipica e disfunzionale, perché quella di Biagio Mazzeo è così: è formata da poliziotti legati da un amore fraterno, ma non c'è vincolo di sangue. Lui dice che la vera famiglia non è quella in cui nasci, ma quella per cui moriresti. Il libro esplora le conseguenze dell'aver mentito, ingannato, e fatto del male per un interesse superiore, quello della salvezza e la salvaguardia di questa famiglia. Ma quando alcuni segreti verranno a galla, Mazzeo vedrà questa famiglia che ha tanto amato sgretolarsi sotto il peso di odio, tradimenti, gelosie e ritorsioni.
Di fronte a una cronaca giornalistica molto dura, che racconta il nostro male quotidiano, quale funzione pensi che la letteratura di genere possa avere la narrativa noir?
Non credo che abbia una funzione consolatoria come poteva averla il giallo classico di stampo anglosassone. Il noir ha sempre raccontato la discesa agli inferi degli ultimi, di personaggi normali che pagano spesso un prezzo troppo alto per le loro colpe o i loro peccati. Spesso una colpa nemmeno la hanno, ma pagano il conto della società in cui vivono e in cui si sentono imprigionati. Si trovano a espiare le colpe di una società cinica, cieca e ingorda, votata al conflitto sociale e al materialismo più bieco. In quest'ottica il noir può avere la funzione di aprire gli occhi dei lettori su alcuni fatti e storie negate di cui i giornali e i tg si guardano bene dal raccontare. Il noir mostra il marciume che si annida dentro le persone e dentro la società. Grida al mondo che siamo noi stessi a creare i nostri mostri. Per questi e tanti altri motivi è sempre stato un genere letterario scomodo, inviso al potere. Ma forse, in queste stesse caratteristiche risiede anche la chiave del suo successo imperituro. Nel suo essere ribelle, nel suo andare controcorrente. Nella mia variante, il noir mediterraneo, cerco di seguire le lezioni del mio Maestro, Massimo Carlotto, che porta avanti da più di vent'anni questo modo di coniugare indagine e denuncia sociale col noir.
Giorgio Scerbanenco, a cui è intestato il premio internazionale di Courmayeur Noir in festival, ha rappresentato la criminalità milanese e i mutamenti della società negli anni ‘60/‘70. Ti senti in parte un erede della tradizione degli scrittori che attraverso il noir fotografano e interpretano uno spaccato delle ombre e delle contraddizioni dei nostri tempi?
Scerbanenco è un gigante del genere e ha avuto l'intuizione geniale di raccontare e spesso anticipare la realtà che lo circondava. Oltre a essere una penna finissima e sensibile, aveva uno sguardo da psicologo e sociologo, e questo ha reso le sue storie immortali e attualissime anche oggi. Noi giovani autori di noir viviamo nell'ombra di chi ci ha preceduto. Scerbanenco e tanti altri hanno tracciato una strada che noi cerchiamo di seguire con dedizione e rispetto. Gli scrittori di qualsiasi genere credo che abbiano il dovere di attraversare il proprio tempo raccontandolo, senza paura e con rispetto profondo del lettore. Le crepe della società, le zone d'ombra dell'essere umano, i peccati, i dolori, i sacrifici e le redenzioni dei personaggi, sono l'asse portante della drammaturgia e dell'arte del racconto. Raccontando di queste donne e di questi uomini che si trovano a vivere al limite in qualche modo esorcizziamo le nostre paure, e cerchiamo di rendere la realtà che ci attornia meno misteriosa e più sostenibile. Proprio come insegnava Giorgio Scerbanenco.
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