Non ci stancheremo mai di deplorare il costume editoriale italiano di offrire al lettore un assaggio, con uno o due titoli, di un autore noir straniero e poi, in caso di risposta positiva, di completare la sequenza infischiandosene, più o meno bellamente, della sequenza cronologica interna. E non è un (mal)costume limitato alle case editrici più spregiudicate che vogliono monetizzare subito l’investimento: è accaduto alla Sellerio con la coppia svedese Sjöwall & Wahlöö (con il risultato di avere spiattellato il nome del colpevole di un romanzo ancora non tradotto), alla Longanesi con lo scozzese Rankin (di cui ci si dimentica dei noir con Rebus all’inizio della carriera), alla Marsilio con la svedese Marklund (di cui, grazie anche al passaggio dalla Mondadori, rimane inedito il terzo episodio della saga di Annika Bengtzon); e alla Einaudi con Nesbø, appunto.
L’autore norvegese viene “scoperto” dalla Piemme nel 2006 quando pubblica Il pettirosso, terzo romanzo della serie dedicata ad Harry Hole, originariamente apparso in norvegese nel 2000. Visto che il pubblico, in piena luna di miele col noir scandinavo, apprezza, l’editore prosegue nella traduzione degli episodi successivi, fino al settimo, nel 2010. A questo punto l’autore, ormai lanciato, passa, all’interno del gruppo Mondadori, dalla Piemme a Einaudi, nella collana Stile Libero che da tempo “rileva” autori, scandinavi e non, che si sono fatti le ossa con sigle editoriali minori o meno prestigiose. La scelta è ancora nel segno della continuità: a cadenza annuale, dal 2011 al 2013, vengono pubblicati gli ultimi tre romanzi del ciclo e solo allora, mentre di Nesbø, parallelamente, escono anche thriller senza protagonista fisso (tre fra il 2013 e il 2015), si ritorna alle origini: Il pipistrello l’anno passato e Scarafaggi quest’anno completano finalmente la decalogia dell’autore norvegese.
Puntiglio filologico? No, o perlomeno non solo. Il fatto è che il personaggio, il rude, stropicciato, alcolizzato, ferito – in tutti i sensi – Harry Hole ha subito nel tempo una certa metamorfosi e ritornare indietro improvvisamente di quasi vent’anni non aiuta ad apprezzare nelle sua interezza le scelte di Nesbø.
Ad esempio, dopo l’Australia dell’esordio, il nostro autore insiste sulla location esotica; stavolta siamo in Thailandia e l’intreccio vede coinvolti a pieno titolo norvegesi di tutte le risme: un ambasciatore, Atle Molnes, dalla tormentata vita privata e il cui assassinio dà origine all’indagine; un agente segreto, Løken, dal passato oscuro; un intermediatore finanziario, Jens Brekke, che gioca coi numeri e con le persone; un imprenditore di successo, Ove Klipra, con molti scheletri nell’armadio; e quasi nessuno orbitante negli stretti sentieri della legalità. Tuttavia il lettore finisce per essere irresistibilmente attratto dal colore locale – il traffico, i sordidi vicoli dove si commercia il sesso, i ristoranti dalle abitudini culinarie non sempre condivisibili – e dai comprimari locali del nostro Hole: a cominciare dall’ispettore capo Crumley – americana, donna, lesbica, calva – che si destreggia con perizia nelle indagini, ma finisce per essere un po’ troppo pittoresca. Per non parlare dei boss locali e dei loro tirapiedi giganteschi proveniente dalla Manciuria.
Se poi aleggia su tutta la vicenda il sapore aspro della pedofilia – il turismo sessuale della ricca Europa nella “indifesa” Asia Orientale era già allora cosa risaputa e denunciata – il fascino (superficiale) del libro è assicurato. Come certi “gialli-spaghetti” di nostra produzione degli anni Cinquanta o come certi “western-spaghetti” di ambientazione ciociara e spagnola, si ha l’impressione che il nostro esordiente abbia voluto costruire una robusta rete di protezione esotica per declinare certe storture sociali norvegesi, sulle quali avrà modo di tornare con maggiore efficacia nei romanzi successivi, e per sorreggere un eroe davvero fuori dalle righe.
Harry Hole si esalta, come personaggio e come detective, solo nella e attraverso la sofferenza: fisica (non si contano le botte e anche le torture che subisce in ogni avventura), ma anche spirituale (non passa inchiesta che non perda in modo drammatico una persona, possibilmente di sesso femminile e anche a lui cara). La condanna della sorella Søs, disabile e sostanzialmente abbandonata dal loro padre, ripiegato su se stesso dopo la morte della moglie, acuisce la sua estraneità a una società che pare strutturata solo per tipi belli, ricchi e vincenti. Il contrario di Hole, insomma. Che tuttavia un suo aspro fascino riesce a sprigionarlo se, pur con le innumerevoli cicatrici sul corpo e nel cuore, le donne sanno apprezzarlo, al di là dei suoi difetti, e i superiori, anche quando intendono manovrarlo come in questo caso, debbono alla fine ammettere a denti stretti che come sbirro ci sa fare.
Insomma, letto nella giusta prospettiva, come opera seconda di autore di belle speranze, Scarafaggi ci avrebbe senz’altro maggiormente conquistato. Viceversa, letto dopo tutto quello che abbiamo saputo del nostro eroe, ci lascia in bocca un retrogusto amaro, di incompiuto, di inespresso, destinato a dileguarsi molto, troppo lentamente.
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