Un enigma della camera chiusa. Anzi, due camere chiuse: una dall’interno e una dall’esterno. Tre persone, due morte e una viva. Quella viva si chiama Walter Pioggia, impiegato nel mondo dell’editoria, è lì dentro ci si risveglia senza sapere come ci è finito.
Lo specchio nero è una rivisitazione del genere nato dalle penne di Edgar Allan Poe, Agatha Christie, Ellery Queen e John Dickinson Carr. Ma, a ben vedere, non sono solo due le camere chiuse: c’è il mondo dell’editoria — la letteratura è lo specchio nero che vi si trova dentro come unico elemento d’arredo, moltiplica le storie e i personaggi, li capovolge, li sputa fuori dalla sua superficie liscia o li attrae e li annienta — e c’è Bologna, una stanza metropolitana con un milione di persone dentro.
Una Bologna che, nonostante la colonna sonora rock di Led Zeppelin, The Who, Genesis e Velvet Underground, assomiglia a quella che canta Lucio Dalla in Anna e Marco. Quella dei “lupi di periferia”, dei ragazzi con “grosse scarpe e poca carne”, di gente che si “scambia la pelle” nonostante tutto, ma che è imprigionata e vorrebbe andar via, scappare dall’incubo come Walter Pioggia. Un incubo che dura una settimana e che ha inizio in via della Luna — “la luna che li guarda e anche se ride / a vederla mette quasi paura / e la luna in silenzio / ora si avvicina / con un mucchio di stelle / cade per strada” — a Bologna; un cattivo sogno dove i personaggi possono anche avere “un’aria da commedia americana” e riescono a far ridere, come spesso accade nei romanzi di Gianluca Morozzi.
Uno scrittore che si diverte da matti a prendere in giro il lettore e che con lui, come dicono nella città delle Torri, fa "balotta": come se fossero nella stessa compagnia, sospendessero l’incredulità a botte di birra e si raccontassero storie per tirar tardi.
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