Parafrasando Paolo Sorrentino, un titolo alternativo per Se tornasse Natale di Giacomo Cacciatore potrebbe essere L’uomo in meno e non solo perché racconta un’assenza, non perché fra i personaggi c’è uno scalcagnato cantante neomelodico, ma per la stessa maniera di inquadrare i personaggi, di fotografare la tragica ironia che li ricopre e li inghiotte.
Siamo all’inizio degli anni ’80, il decennio delle possibilità per tutti, quando il pezzo di pane sulla tavola lo si portava comunque, anche a Palermo. Il romanzo racconta una storia di lupara bianca, compresi orfani e vedove dello stesso colore. I punti di vista da cui Giacomo Cacciatore racconta questa porzione di spazio-tempo sono molteplici; i più interessanti sono due, quelli più vicini allo scomparso Natale Lo Bianco, vulcanizzatore e ladro: quelli della moglie Consolata e del figlio Bruno. Lo sono perché essere uomini in quegli anni, tutto sommato, non era un problema, mafiosi o no, in fondo il mondo era a loro misura.
Ma quando il mondo è il rione — un mondo piatto e pre-copernicano, dove a uscirne fuori si rischia di cadere nel vuoto cosmico — le vie di fuga per donne e bambini sono esigue. Ci riesce in qualche maniera il piccolo Bruno, un bambino che non avrebbe sfigurato in un suburbio di Stephen King. Con la forza della fantasia, ricuce i rapporti di causa-effetto della realtà in un quadro surreale, allo stesso tempo agghiacciante e commovente. Una realtà di frontiera, dove ci si muove anche su confini semantici: tra magia e mafia c’è solo un accento e una lettera. Tra vita, non vita e vita apparente, poco meno.
Dopo La differenza, che più che un romanzo è una pièce (e infatti al teatro c’è finito davvero), Cacciatore torna al suo stile consueto, curando i personaggi con profondità letteraria e montando il plot col ritmo di un’opera di genere. Il risultato si allinea perfettamente alla visione di Bruno Lo Bianco: surreale, agghiacciante e commovente.
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