Quando si parla di giallo scandinavo, il primo nome che viene in mente al lettore italiano è sicuramente quello di Henning Mankell, scrittore svedese nato nel 1948 che recentemente, come qualcuno dei suoi personaggi, ha sentito il bisogno di fuggire dal suo paese dividendo equamente il suo tempo tra la patria e il Mozambico.

In Italia infatti, dopo che Mankell nell’Europa del Nord (ma non solo) era già conosciuto e addirittura dai suoi polizieschi era stata tratta una fortunata serie televisiva (chissà perché mai acquistata dai nostri esterofili network), la casa editrice Marsilio con una prudente, ma inarrestabile cadenza annuale, ha cominciato negli anni Novanta a proporre questo autore particolarissimo che ha incontrato l’apprezzamento del nostro pubblico.

Il suo eroe, Kurt Wallander (a seconda delle traduzioni nelle varie lingue definito come ispettore o commissario), dirige in pratica la Squadra Omicidi della Polizia di Ystad, città svedese posta a sud, nella regione della Scania. Mankell ha deciso di dedicargli un numero definito di romanzi (nove, per l’esattezza – più un romanzo breve – e questo di cui parliamo è il penultimo) per poi passare a due interessanti spin-off: Prima del gelo, già apparso da Mondadori un paio d’anni fa, vede come protagonista la figlia di Wallander, Linda, diventata anch’essa agente di polizia e che, secondo le intenzioni, dovrebbe comparire in altre due avventure; contemporaneamente, in quest’ultimo libro, appare un collega di Linda, Stefan Lindman che è già al centro di un “suo” romanzo non ancora tradotto in Italia.

Tornando però a Muro di fuoco, possiamo dire che, da incalliti seguaci e fan del nordico detective, siamo rimasti un po’ delusi. Quelli che erano i punti forti della proposta poliziesca di Mankell, stavolta sono stati i momenti meno interessanti, meno trascinanti in assoluto.

Mankell ha infatti l’abitudine, per ogni titolo della serie di Wallander, di individuare un problema grave manifestatosi recentemente nella società svedese (il razzismo collegato a un’immigrazione un po’ troppo facile in Assassino senza volto; la nascita di forze oscure malavitose dal grembo dei nuovi stati nati dal collasso dell’URSS in I cani di Riga; il potere incommensurabile dell’alta finanza nel mondo contemporaneo in L’uomo che sorrideva) e di costruirci attorno una storia d’indagine che, parallelamente allo smascheramento dei responsabili, porti alla luce le contraddizioni di una nazione che si sta dolorosamente svegliando dal suo sogno di isola felice.

Questa volta il nodo problematico individuato è la vulnerabilità di un sistema che si affida totalmente all’informatica per cui può essere messo in ginocchio da terroristi invisibili che si trovano ai quattro angoli della terra ma che dialogano tra loro nello spazio cibernetico: lo sviluppo dell’intreccio però è assai lento e la conoscenza dell’argomento risulta non sempre convincente. Diciamo che il romanzo a tesi funziona a patto che si sorvoli sugli aspetti tecnici della questione.

Altro punto forte di Mankell è sempre stata la giustapposizione tra Wallander e le sue ferite private (il divorzio, una figlia lontana, la solitudine, i pochi amici che se vanno via dalla Svezia, la sensazione di invecchiare in un mondo ormai troppo veloce per lui) e il lavoro di squadra, certosino, con continue riunioni, con un lavoro paziente di sedimentazione al quale Wallander dà poi il suo inimitabile tocco di intuito, di logica e anche di pericolosa incoscienza.

Stavolta si avverte distintamente il peso di questo lavorìo, di questa lenta accumulazione di dati, di una lunga ricerca di indizi che magari si rivelano poi fallaci, visto che il mondo là fuori è regolato più dal caso (il delitto che dà origine all’indagine) che dalla logica (quella che porterà a scoprire un vasto e ramificato disegno di sabotaggio del sistema bancario e finanziario mondiale).

Le oltre 500 pagine (misura standard italiana per i romanzi del ciclo di Wallander) scorrono questa volta a fatica, tortuosamente, con ripetizioni di situazioni e concetti, con inutili focalizzazioni sulle piccole disavventure private di Wallander (la sua Peugeot che lo lascia a piedi, per esempio), con fastidiosi cenni ai romanzi precedenti di cui si svela l’elemento sorprendente (cosa che noi naturalmente non faremo) che aveva acceso il loro finale.

Il Maigret svedese (al di là dei facili accostamenti delle fascette editoriali, in effetti, pur nella diversità dell’approccio, Wallander accumula dati, sensazioni, intuizioni, atmosfere come il suo più anziano collega parigino che però ha dalla sua, e non è poco, l’asciutta prosa di Simenon e il ritmo veloce di un romanzo da leggere d’un fiato) questa volta non ci ha convinto: forse è appannato dall’incipiente vecchiaia o forse il fatto che sua figlia stia per entrare in polizia lo trova pronto a passar la mano.

Noi, seguaci del buon vecchio Mankell, aspetteremo fiduciosi nel 2006 l’ultima apparizione dello stropicciato detective sperando, sotto sotto, di doverlo rimpiangere al cospetto di Linda e del suo collega Stefan.

Voto: 6½