Pensate alla suggestiva, galiziana Tierra de Chà, contrada contadina in cui sono cresciute e tornate le due protagoniste, dopo anni di lontananza. Pensate a queste due pittoresche sorelle, le Inviernas, Dolores e Saladina, unite da un legame fortissimo, gelose l'una dell'altra, a metà del secolo scorso: la più giovane è bella e ha trovato un marito che ora non c'è più, l’altra è brutta, sdentata, puzza di aglio e cipolla. Entrambe mangiano fichi dolcissimi, vivono giorno dopo giorno senza pretese, ma sentono una forte calamitazione per il cinema e il pensiero di essere scritturate pare lambire le loro esistenze, fino a riempirle, a momenti. Nel frattempo fanno i conti con la rudezza di una vita povera e semplcie, dove sono altri i pensieri che le sfiniscono, tra cui alcuni misteri:
davvero il loro nonno defunto, un santero guaritore, depositario di medicine segrete, ha nascosto da qualche parte una cassetta in cui sono custoditi gli atti di compravendita dei cervelli degli abitanti del paese?
quale atto terribile le lega alla sparizione del marito di Dolores, pescatore di polipi rozzo e insensibile?
perché Tiernoamor strappa i denti dalle bocche dei morti? E cosa si nasconde dietro a quella stanza di casa sua, così ambigua?
Una galleria colorita di personaggi memorabili affianca le due sorelle, a partire dal goloso parroco don Manuel, la cui più grande preoccupazione è non tanto sostenere il suo gregge, quanto cercare di arraffare dalle sue pecorelle quanto più cibo può. E nel suo particolarismo si riflettono i compaesani:
«Il villaggio è una spina di pesce.
Una strada principale più ampia che sfocia in una piazza con un incrocio. Da entrambi i lati, viuzze piene di case di pietra scura a due piani, con tetti di pietra nera.
[...]
Il viale dei tigli.
E dietro le finestre, gli occhi. Gli stessi occhi di sempre.
Lì, tutto trascorre secondo la stagione. In estate si trebbia il grano e si vendemmia; a settembre la semina e il raccolto.
Lì c'erano quelli di sempre. Convinti che il mondo finisse alla curva della spina di pesce dove cominciavano a non vedersi più le case di Tierra del Chà».
Cristina Sànchez-Andrade, nata a Santiago di Compostela nel 1968, giornalista, critica letteraria e traduttrice di classici dalla lingua inglese, porta avanti questo romanzo con una bella scrittura corposa, cadenzata dal tempo lontano che scorre, essenziale ma forte come la civiltà contadina che ci racconta e ogni tanto si intravedono contaminazioni latino-americane soprattutto nella rappresentazione dell' "alvea" quasi primordiale: qui, come a Macondo, ad esempio, all'inizio mancano luce elettrica, cavi telefonici e bagni dentro le case. Oppure avvengono fenomeni soprannaturali come la comparsa innaturale di nuvole di farfalle, di marqueziana memoria. E dal momento che questo microcosmo porta in sé tutti i cicli, anche qui, in alcune pagine, la morte incombe sovrana e perfino densa di fascino:
«Vecchia. Alta. Secca.
La sentì arrivare con il suo odore violento di mele marce, la sentì arrivare e schivare le carni di chi le dormiva al fianco; è il vento che comincia a soffiare dal nord. La sentì arrivare, densa, insistente, con chi parlavi? La sentì arrivare accompagnata dalla sua musica di quasi niente.
La morte arrivò gironzolando come un animale che si porta dietro una fame atavica, segreto di sangue, segreto di voce e carne, gridando: Sono arrivata, sono io, l'unica davvero uguale per tutti, non hai paura di me?».
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