Anno nuovo, thriller vecchio. O quasi.
Due passi indietro. In Islanda l’onomastica è rimasta sostanzialmente ferma al Medioevo vichingo per cui gli abitanti dell’isola, oltre a darsi del tu, si chiamano col solo nome di battesimo, essendo il loro cognome nient’altro che un patronimico, peraltro un po’ più complicato di quelli, ad esempio, russi; infatti, a seconda se si è maschi o femmine, il patronimico si forma con il suffisso son o dóttir. Tutto questo per dire che i protagonisti è filologicamente più corretto ricordarli – e trascriverli – col solo nome di battesimo.
Un passo indietro. La nostra autrice ha dedicato alla sua legale Thora – nome di battesimo, of course – ben sei romanzi e il primo, Il cerchio del male del 2005, venne tradotto in Italia (quasi) a tamburo battente due anni dopo. La prova non ci aveva granché convinto e dello stesso parere furono anche i lettori del nostro paese, accorsi in libreria in numero evidentemente non troppo soddisfacente ad abbeverarsi alla nuova sorgente del thriller del Grande Nord.
Ed ecco che Il Saggiatore, dopo un assaggio nel 2012 con un altro romanzo (fuori serie) della scrittrice, Mi ricordo di te, ha ripresentato nell’anno appena trascorso la sua intrepida Thora, stavolta con risultati decisamente più soddisfacenti.
La storia d’amore con l’affascinante tedesco Matthew Reich rimane saggiamente sullo sfondo; le tempeste ormonali del suo primo figlio Gylfi si sono inevitabilmente concluse con un allargamento della famiglia e con la nascita del piccolo Orri, ma fortunatamente anch’esse interessano solo marginalmente la vicenda; e l’ambientazione nell’arcipelago delle Vestmannaeyjar, nel sud-ovest dell’isola madre, è ben più convincente.
Tutta la vicenda criminosa, anche se ha qualche diramazione nella capitale, ruota attorno alla grande eruzione che minacciò di cancellare nel 1973 quella piccola comunità, apparentemente così pittoresca e pacifica. In realtà, come ci insegnano i più grandi autori di noir scandinavi, dietro l’idilliaca maschera vuoi del welfare urbano vuoi della rude e sincera complicità con la natura incontaminata si cela sempre un’insidiosa e profonda malattia dell’animo.
E così la scoperta di tre cadaveri e di una testa mozzata nello scantinato di una delle case riemerse dagli scavi archeologici dà il via a una complicata girandola di crimini causati sempre da sentimenti primordiali – il sesso, l’onore, lo spirito di clan – tra i quali si deve destreggiare la nostra Thora con le sue angosce da madre e nonna single, la sua scarsa attenzione al look, l’impossibilità di realizzarsi pienamente come donna; ma anche con la sua dirittura morale e la sua curiosità intellettuale che le permettono di allargare la sua ricerca anche al di fuori del ristretto campo di sua pertinenza.
Così il finale, con un inaspettato colpo di scena che conclude peraltro un plot un po’ troppo complesso, non giunge invocato come nella precedente avventura di Thora: stavolta il movimento a pendolo – nel tempo tra passato (eruzione e omicidi) e presente (nuova morte sospetta) e nello spazio tra Reykjavík e la costa sudoccidentale – consente al lettore di immergersi in un’atmosfera esotica e al tempo stesso realisticamente ricostruita che si tiene a debita distanza sia dall’omologazione del thriller internazionale sia dall’oleografico ritratto di maniera della società islandese.
Certo, siamo abbastanza lontani dalle vette del connazionale Indriđason – che non a caso ha avuto maggior fortuna anche da noi – ma questo romanzo ci riconcilia con l’autrice rendendoci moderatamente curiosi sugli sviluppi della sua serie: l’avvocato Thora si è meritata un’altra chance coi lettori italiani.
Voto: 6.5
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