Lungometraggio del 1966 che chiude “la trilogia del dollaro”, è uscito nelle sale cinematografiche italiane dopo il restauro promosso dalla Cineteca di Bologna, dal Leone Film Group e dalla Metro Goldwyn Mayer e realizzato dal laboratorio L'Immagine Ritrovata, Il buono, il brutto, il cattivo che doveva essere, nelle intenzioni di Leone, il suo ultimo film western.
Il regista italiano, infatti, aveva previsto di abbandonare il genere che lo aveva reso famoso per raccontare l’America del proibizionismo con la pellicola intitolata C’era una volta in America.
Ma Sergio Leone, riuscì a realizzare questo progetto solo diciotto anni dopo e vale la pena ricordare che C’era una volta in America fu anche la sua ultima opera.
Nel corso di quei diciotto anni quindi, realizzò altri due western e si dedicò, per ingannare l’attesa, prevalentemente a film diretti da altri in qualità di produttore.
Questa premessa è necessaria per spiegare come Sergio Leone si accingesse a chiudere il suo personalissimo discorso sul western proprio con questo lavoro.
Il primo lungometraggio era stato una scommessa, il secondo una conferma, il terzo doveva affermare una volta per sempre “la via italiana al western”.
E quale poteva essere se non la “commedia western all’italiana”?
Leone l’aveva capito per primo: la più forte, la più significativa, la più importante innovazione del genere western a quel punto non poteva essere che il senso dell’umorismo.
Quando si era imbarcato nell’avventura di Per un pugno di dollari, il regista italiano aveva sinceramente temuto, come si diceva nell’ambiente dei cinematografi romani, di “far ridere i polli”.
Invece gli era andata bene.
E allora con il secondo film, Per qualche dollaro in più, aveva trovato il coraggio di fare dell’ironia esplicita.
Il terzo: Il buono, il brutto, il cattivo, doveva dunque spingersi, senza esitazioni, oltre la barriera della comicità.
Nulla poteva più accadere per caso.
Sergio Leone aveva ormai idee chiarissime.
Al punto da affidare la sceneggiatura del film ad un terzetto formato dal fido Luciano Vincenzoni e dalla celeberrima coppia Age e Scarpelli.
Con uno stile già sperimentato in Per qualche dollaro in più, Leone presenta i tre protagonisti come se fossero gli eroi di un albo a fumetti.
Tuco, un rapinatore messicano pazzo e ghignante esce come una palla di cannone da una banca appena svaligiata.
Sul fermo fotogramma appare in corsivo la scritta Il brutto.
Sentenza, un killer professionista che è capace di uccidere chiunque, persino il proprio mandante, purché ci sia qualcuno disposto a pagare, viene a sapere tra un omicidio e un altro dell’esistenza di un favoloso tesoro, 200.000 dollari, sottratto da un soldato sudista all’esercito nordista.
Sul fermo fotogramma appare in corsivo la scritta Il cattivo.
Il Biondo, un cavaliere solitario, s’imbatte nell’esecuzione del Tuco da parte di tre cacciatori di taglie e in extremis salva la pelle al messicano.
Sul fermo fotogramma appare in corsivo la scritta Il buono.
Da quel momento in poi, il brutto e il buono si mettono in società sulla base di un’ideuzza geniale.
Visto che il buono ha salvato il brutto una volta, perché non continuare a farlo?
Ecco la messinscena: un giorno si e l’altro pure il buono consegnerà il brutto alle autorità intascandone la taglia per poi aiutarlo a fuggire poco prima che sia impiccato.
Il trucco funziona sempre, ma è sempre il brutto ad avere il cappio al collo.
Dai e dai, quest’ultimo finirà per spazientirsi, e il sodalizio si trasformerà in un rapporto amore/odio.
Mentre il buono e il brutto continuano a bisticciarsi come vecchi coniugi, il cattivo s’infiltra nell’esercito nordista per cercare di rintracciare il famoso tesoro.
Ma intanto, gli altri due raccolgono per caso la confessione in punto di morte del soldato sudista che ha trafugato i 200.000 dollari.
E così, vengono a sapere che il bottino si trova sepolto in una tomba non meglio identificata in mezzo ad un cimitero abbandonato.
In fondo ad un percorso spettacolarmente accidentato, il buono, il brutto e il cattivo convergono sul luogo che li farà diventare ricchi.
Come sempre però, dividere il malloppo è la parte più delicata dell’impresa.
I tre si sfidano a duello, il famoso triello, e i piccoli inganni ancora una volta si sprecano.
Il cattivo tira le cuoia.
Il brutto si prende un bello spavento.
E il buono si allontana a cavallo con la bisaccia piena.
Ma poiché è davvero buono, non se ne va lasciando a mani vuote il suo compare.
Il buono è Clint Eastwood, ormai in rotta con il suo padre artistico Sergio Leone.
Eastwood non vedeva l’ora di tornare trionfante a Hollywood, questo, infatti, è l’ultimo film girato da lui in Italia.
Il cattivo è ancora Lee Van Cleef, i cui limiti sono ormai fin troppo evidenti.
Anche Van Cleef lascerà Leone per sfruttare la fama acquisita in successivi e ben pagati sottoprodotti del western all’italiana.
Il brutto è il solito “fool” shakespearino caro a Leone.
Come nei precedenti western, l’interprete doveva essere Gian Maria Volontè, ma il regista temeva che il grande attore italiano avrebbe conferito al personaggio di Tuco uno spessore troppo nobile e inquietante non rendendolo abbastanza comico.
Fu per questo che Leone scelse Eli Wallach, gran caratterista americano che aveva strabiliato negli Spostati di John Huston accanto ai fascinosi Clark Gable e Marylin Monroe.
Il regista, questa volta più che mai, fa la parte del Leone.
Il buono, il brutto, il cattivo rimane forse, a tutt’oggi, il suo film più spettacolare.
Ma anche la sceneggiatura gronda d’inventiva.
Age e Scarpelli imprimono uno stile preciso al film utilizzando trovate accumulate in anni d’esperienza.
Piccole grandi idee in cerca di un film moderno finalmente trovato.
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