C’è un palazzo in declino, a Bologna, nel distretto popolare di via Patagonia: qui tre burattinaie ultrasettantenni tirano i fili delle vite proprie e altrui. Sono anziane, disilluse ma ancora sognatrici e ognuna porta sul volto la polvere del sentiero che ha percorso. La voce narrante è quella di Wilma, venditrice ambulante così abile che “venderebbe l’acqua santa al diavolo”. La sua esistenza è segnata da un terribile lutto, quello del figlio morto in un incidente stradale, ed è movimentata da Melania, l’erede rimasta, donna lunatica e selvatica, arrabbiata col mondo e adescata da una setta satanica.

Alla voce di Wilma si alterna quella in terza persona del narratore onnisciente, che sa bene cosa combinano tutte e tre le Sultane, sia prese separatamente, sia messe assieme. Perché poi c’è Nunzia, bacchettona in apparenza, ma piena di desideri e di superstizioni, marchiata da quell’elefantiasi alle gambe che è uno spettacolo a vedersi. Tutti, quando le stanno vicini, sono curiosi di quella deformazione:

«Come molte tra le persone che si trovano a una distanza irrisoria dalle gambe di Nunzia – gambe ora esposte dal ginocchio in giù, il tepore di ottobre lo permette – anche Corradino non riesce a resistere alla tentazione di dirottarvi l’occhio. Pur avendo cura che la sua interlocutrice non se ne accorga, devia lo sguardo dalla corteccia dell’olmo al cestino dei rifiuti, fino all’elefantiasi esposta così impudicamente. Che gambe. Due immensi würstel che terminano oltre le caviglie, affondando nella carne del piede. Il rosa biancastro è spruzzato da diramazioni violacee, con picchi di ragnatele blu, dovute alle rotture multiple di sottili vasi sanguigni. Bisogna approfittarne, pensa Corradino. Tra poco arriveranno i freddi e la donna uscirà di rado, sempre coperta da spesse calze contenitive».

Il trio è completato da Mafalda, “la donna più tirchia sulla faccia della terra”, che andrebbe a braccetto con L’Avaro di Moliere o con Mazzarò che Verga ha sapientemente descritto ne La roba. Lei vive per risparmiare, accumulare, ma si tratta di una caccia al tesoro dei poveri, dove i pochi spicciolo vengono presto vanificati dagli stenti e dalle scelte dei figli. Così Mafalda, quando si presenta l’occasione di un bottino vero, non si fa scrupoli. Lei che di scrupoli già era taccagna, visto come trattava il marito malato di Alzheimer, imbavagliandolo a letto.

Ma nel palazzo dove le tre signore spadroneggiano c’è un elemento di disturbo. Si chiama Carmela, è una siciliana tutto pepe e menefreghismo che infastidisce la quiete pubblica e non ha la cortesia di consumare in silenzio le sue notti di piacere. Non è solo questo che impensierisce le tre. È piuttosto la sua inciviltà, il disprezzo che mostra nei loro confronti. Carmela sale a simbolo di maleducazione e di individualismo. È proiezione di un mondo indifferente, dove trionfa il sistema della prepotenza. Così contro di lei scatta un meccanismo a molla che nessuno riesce più a fermare, tanto più che ne resta invischiato anche il suo compagno di bagordi.

Non voglio anticiparvi troppo, però vi dico che: dopo la parte introduttiva che descrive la situazione generale, la narrazione subisce un’impennata che vi terrà incollati fino alla fine, tra tresche, morti, condotte deplorevoli, peccati di gola, omissioni, segreti.

Un romanzo, Le Sultane di Marilù Oliva, giocato bene proprio perché la sua natura sperimentale è riuscita a lasciare spazio ai generi senza che nessuno prevaricasse sull’altro. Questo non è un noir, non è una commedia, non è una tragedia. Eppure è tutte e tre le cose. Ed è anche una commedia degli equivoci che non lascia scampo nemmeno al lettore, perché l’autrice ha dichiarato:

«Vorrei che alla fine di questo romanzo il lettore si domandasse: e io? Potrei fare qualcosa anch’io, nel mio piccolo, per sterzare rispetto alla politica dell’egoismo? Che poi non è vero che non contiamo niente: se tutti ci rimbocchiamo le maniche, il piccolo contributo diventa un grande passo»

Se avete voglia di oltrepassare il dato squisitamente letterario, vi troverete davanti a una verità sconfortante, quella degli anziani ma non solo, quella di tutte le categoria indifese e vilipese, considerate inutili. Forse in fondo Marilù vuole dirci quello cui già ci aveva abituati da Repetita in avanti, ovvero che nessuno nasce delinquente, perché il male non ci battezza: è la vita che lo chiama a noi. Poi queste tre vegliarde che trafficano col crimine hanno dei grandi momenti di turbamento ed è lì che il lettore tocca la sofferenza nuda e cruda, il dramma interiore. Nel momento in cui succede, si comincia a parteggiare per loro e a farsi domande sul tempo che passa, su come passa e dove porterà. Come accade a Wilma:

«Oddio, cos’è successo?

Il cuore batte a mille, il petto sobbalza all’impazzata e, sotto lo sterno, a sinistra, sento quel dolorino che mi punge quando mi sottopongo a uno sforzo fisico o emotivo. Angina pectoris.

La situazione è degenerata, io non volevo…

Se ci sarà un aldilà, mi attenderà un inferno ben peggiore di quello che sono stata costretta a vivere in questi anni. Possibile? Cos’ho patito, qui? Non solo sofferenze, la mia vita è stata accoltellata da vuoti e malintesi. Ma da giovane non te ne accorgi, ti illudi che sia ancora tutto possibile, perché idealmente puoi fantasticare di insaziabili orizzonti. Quindi le cose cambiano, ti rendi conto che ormai hai scritto buona parte del tuo romanzo autobiografico – tu, con le tue mani e le tue scelte – e ciò che resta è intrappolato in una scatola predefinita. È questa la vecchiaia, il passaggio dalla dimensione dell’infinito alla gabbia del prevedibile. Sai che camperai non oltre un determinato numero di anni, in un suolo stabilito e sempre più circoscritto, sai che si assottiglierà il tuo potere decisionale, che non avrai altri figli, altri sorrisi sconosciuti, altri alberi da veder crescere, altri capricci per cui chiedere clemenza». 

Qui il book-trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=2UjR_Vtj3dY&feature=youtu.be